Nella Grecia antica la vendetta privata doveva essere proporzionata all’offesa, in tal modo si dimostrava anche il valore e la superiorità della vittima, la quale riacquistava il prestigio compromesso a causa del torto .
La vendetta non era un tratto peculiare soltanto degli uomini; anche gli Dei dell’Olimpo e gli eroi della mitologia sapevano essere particolarmente vendicativi; il perdono e la nobiltà d’animo non erano certamente connotati di quelle divinità, dedite prevalentemente a vendette e ripicche consumate in ogni dove.
Si ricorda che Eros, il Dio dell’Amore, tramò una sottile vendetta nei confronti di Apollo, il quale l’aveva denigrato per non aver mai compiuto azioni eroiche, essendosi sempre limitato a scoccare frecce d’amore.
Per lavare l’offesa Eros centrò il cuore del Dio con uno dei suoi dardi d’oro facendolo perdutamente innamorare della ninfa Dafne; a lei scoccò una freccia di piombo, il cui effetto fu la totale repulsione per il bellissimo Dio del Sole.
Apollo le provò tutte: la inseguì, le elencò suoi poteri, tentò di convincerla in ogni modo, ma non ci fu nulla da fare; stremata dal serrato corteggiamento di Apollo, la ninfa chiese aiuto al padre: fu così che, nel momento in cui il Dio del Sole la raggiunse, lei si trasformò in un bellissimo albero di alloro, lasciandolo solo con i suoi tormenti d’amore.
Neppure gli eroi omerici potevano vantare condotte nobili e onorevoli. Il Pelide Achille non ci pensò due volte a ritirarsi dalla battaglia contro i troiani, lasciando i compagni in balia del nemico, perché Agamennone aveva liberato Briseide, la schiava di guerra assegnatagli in premio. Soltanto l’ardente desiderio di vendetta, scatenato dalla morte dell’adorato Patroclo per mano di Ettore, lo fece tornare sui suoi passi e la sua furia fu assoluta.
Neppure alcuni episodi della Bibbia sono esenti da tratti vendicativi. Giuditta – devota a Dio – non si fece tanti scrupoli con Oloferne: per salvare il suo popolo dall’assedio del re assiro, lei – bellissima e splendidamente abbigliata – si recò insieme alla sua serva presso la tenda di lui, manifestando l’intenzione di tradire la sua gente.
Oloferne – ovviamente – non resistette a cotanta beltà, la invitò prontamente al banchetto e poi a concludere la serata nel suo alloggio. Le cose non andarono come il re aveva immaginato: avendo ecceduto nei brindisi, Oloferne cadde presto in un sonno profondo. L’occasione era perfetta: lei prese rapida la spada e gli tranciò di netto la testa, riponendola in un cesto per le vivande. Poi, fece ritorno vittoriosa dal suo popolo.
Con il tempo e il progredire degli ordinamenti, le vendette private truculente e senza controllo furono sostituite dalle sanzioni comminate dallo Stato.
Una legge risalente agli anni 621- 620 a. C. vietò agli ateniesi la vendetta privata, prevedendo una pena irrogata dallo Stato: la morte per l’omicidio volontario e l’esilio per quello involontario.
Inizialmente la pena aveva natura retributiva: lo Stato puniva con la sanzione il crimine commesso; in altre parole, veniva inflitto un castigo per il male di cui il soggetto si era reso responsabile.
Ben presto fiorirono le prime idee secondo cui la sanzione dovesse avere anche un effetto deterrente verso il compimento di futuri delitti: Platone sosteneva che la virtù potesse essere insegnata grazie alla pena così da garantire una maggiore sicurezza della collettività, mentre la natura retributiva passava in secondo piano.
Erano i primi barlumi dei caratteri della pena moderna, la quale presenta da un lato elementi di sanzione retributiva irrogata per il danno provocato alla collettività, dall’altro deve avere una finalità rieducativa, essendo tesa a riportare il reo sul giusto binario della legalità.
Per tali ragioni il nostro ordinamento riconosce diversi istituti premianti favore del detenuto, concessi ben prima della scadenza della pena. E’ comprensibile che le parti offese fatichino a comprendere tali “premi”, che vengono vissuti con grande frustrazione, senso di abbandono e ingiustizia per l’evidente incertezza dell’entità della condanna.
Negli ultimi trent’anni negli Stati Uniti e in Inghilterra sono sorti diversi movimenti a sostegno e tutela dei diritti delle vittime (Victim’s Rights Movements), i quali hanno portato alla presentazione di istanze avanti alla Corte Suprema americana per ottenere l’ammissione nella “Sentencing phase” (fase di determinazione della pena dopo la condanna) delle testimonianze dei familiari delle parti offese. La finalità di queste richieste è quella di portare agli occhi della Corte la sofferenza e il patimento subito dalla vittima e dalla sua famiglia per effetto del crimine.
I giudici statunitensi non hanno avuto decisioni unanimi sul punto, ma la questione è un’altra: oggi diversi studiosi sostengono che le vittime dovrebbero avere più voce, così da essere aiutate anche psicologicamente a superare il trauma subito.
Anche nel nostro paese da più parti si auspica una riforma del sistema sanzionatorio: non si chiede di abbandonare il principio della finalità rieducativa della pena, ma che siano introdotti correttivi diretti a garantire l’effettività della sanzione e la certezza del diritto, quale fondamentale e primaria espressione di civiltà di un moderno ordinamento giuridico.