Caravaggio fu maestro nel rappresentare questo delicatissimo gioco seduttivo e quanto a esso sia sotteso. Nel celebre dipinto “La buona ventura” sceglie come modella una giovane graziosa gitana, con indosso l’abito tradizionale delle veggenti, caratterizzato da un panno rosso legato su una spalla e un turbante sulla testa che le dona un’intrigante aria esotica. Lei delicatamente prende la mano del giovane elegante con cappello piumato e spada al fianco. Il gesto è sottile, il tocco lieve, tutto avviene mentre lei lo guarda languidamente con l’accenno di un sorriso e lui si lascia irretire senza opporre la minima resistenza.
L’inganno è in quello sguardo che sposta l’attenzione del ragazzo dalla predizione del futuro a ben altri pensieri. L’abilissima gitana con una carezza gli sfila l’anello d’oro dall’anulare senza che lui neppure se ne accorga.
Dall’epoca di Caravaggio il furto non è mutato particolarmente: è uno dei delitti che rientrano nel novero dei cosiddetti “crimini a costante storica“, poiché sottratti all’evoluzione del tempo che ne ha raffinato soltanto modalità di esecuzione (grazie al progresso, quello tecnologico in particolare), mentre la struttura del reato è rimasta immutata.
Se il fatto è commesso con destrezza, ossia con un particolare ingegno, con astuzia e scaltrezza scatta un’aggravante speciale (in quanto specifica per questo reato) che aumenta la sanzione comminata dalla norma prevista per il furto semplice.
L’abilità straordinaria di questo tipo di ladro – nettamente superiore al ladro comune – lo rende socialmente molto pericoloso, in quanto è in grado di superare la normale vigilanza dell’uomo medio, rendendo particolarmente difficile qualsiasi forma di protezione e difesa della vittima. Non ricorre, invece, l’aggravante in questione qualora il furto sia commesso in un momento di distrazione del derubato, poiché in questo caso non vi è alcuna speciale abilità o scaltrezza del ladro nell’atto del sottrarre il bene e l’azione è agevolata soltanto dal calo di attenzione della parte offesa.
Si pensa che “La buona ventura” racconti anche qualcos’altro: a ben guardare la zingara non sfila un anello qualsiasi, ma la fede nuziale del giovane (il fatto che sia alla mano destra può dipendere dalla riproduzione di una scena riflessa). Questo particolare apre un’altra interpretazione – più sottile ed evocativa – del messaggio apparente: il furto sarebbe in realtà la punizione inflitta al giovane per essersi lasciato tentare dalle lusinghe della ragazza nonostante il vincolo matrimoniale. In altre parole, sarebbe il prezzo da pagare per l’infedeltà sottesa, per non aver saputo resistere alla seduzione di due occhi tentatori.
Questo dipinto, insieme a “I bari”, altro grande capolavoro del Merisi, rappresenta il punto di svolta della carriera di Caravaggio a Roma: per la prima volta un artista raffigura scene tratte dal mondo che lo circonda, racconta di vizi, delitti e gioco d’azzardo e molti dei suoi personaggi furono reali, verosimilmente incontrati dall’artista nei vicoli del rione Campo Marzio.
Fu lo storico Giovan Pietro Bellori nel suo trattato “Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni” a confermare questa circostanza, scrivendo “Chiamò una Zingana, che passava a caso per istrada, e condottala all’albergo, la ritrasse in atto di predire l’avventure come sogliono queste donne di razza Egittiana: Facevi un giovine il quale posa la mano con il guanto su spada, e porge l’altra scoperta a costei…”.
Entrambi i dipinti furono acquistati dal Cardinale Francesco Maria del Monte il quale, intuito il genio dell’artista, gli offrì un alloggio, uno studio e protezione, aprendogli la via per entrare nella storia sino a quando Caravaggio, dalla condotta sempre intemperante, fu costretto a una fuga repentina con la pensatissima accusa di omicidio pendente sulla testa… ma questa sarà un’altra storia.