Venenum in auro bibitur: il veleno lo si beve in coppe d’oro, così scriveva Seneca nella tragedia Tieste. Nel rinascimento la locuzione si riferiva alle sofisticate modalità di somministrazione del veleno, che di frequente veniva miscelato alle bevande in calici d’argento: l’intenso sapore del vino, spesso speziato, copriva il veleno e l’impossibilità di vedere la polvere in trasparenza perfezionava il veneficio. In senso traslato può essere riferito a qualcosa di malevolo nascosto da una dolcezza apparente.
Sub rosa dicere: dire sotto la rosa. L’espressione completa “sub rosa dicta velata est” indica segretezza e riservatezza. All’epoca medievale la rosa bianca simboleggiava discrezione e silenzio, per questo motivo cinque petali sono frequentemente incisi sopra i confessionali nelle chiese. Taluni studiosi collegano questa tradizione alla mitologia classica, ricordando il rapporto tra Amore e Silenzio, divenuto simbolo della segretezza amorosa.
Quousque tandem Catilina: locuzione tratta dalla versione completa “Quousque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?” (Fino a quando, Catilina, abuserai della nostra pazienza?): sono le parole dell’invettiva pronunciata in Senato da Cicerone contro Catilina per denunciarlo dopo aver scoperto la congiura ordita ai danni della Repubblica. Catilina ritenuto colpevole di tradimento fu condannato a morte. Venne ripresa da Sallustio e da molti altri autori latini compreso Seneca, oggi è riferita a colui che abusa della pazienza altrui.
Tu quoque, Brute, fili mi?: “Anche tu, Bruto, figlio mio?”. Secondo Svetonio queste sarebbero state le ultime parole di Giulio Cesare prima di morire per mano dei congiurati. E’ espressione del più grave e inaspettato dei tradimenti, anche se Bruto in realtà non era figlio biologico di Cesare, ma uno dei suoi prediletti. La locuzione è stata ripresa anche da Shakespeare nell’omonima tragedia; oggi è diffusa nella forma più semplice di “Tu quoque” per indicare un comportamento inaspettato o sorprendente.
Sic transit gloria mundi: così passa la gloria del mondo. La frase è tratta dalla prima lettera di Giovanni l’evangelista ed è divenuta celebre in quanto veniva ripetuta tre volte al Papa appena eletto al soglio pontificio per ricordare quanto sia effimero il nostro passaggio in questo mondo. Oggi si usa per commentare improvvisi cambiamenti successivi a momenti positivi o di grande fortuna.
Audantes fortuna iuvant: la fortuna aiuta gli audaci. La locuzione è stata scritta per la prima volta nell’Eneide di Virgilio. Con queste parole Turno, re dei Rutuli, esortava i suoi uomini contro Enea. Il senso della frase consiste nell’invito a essere sempre coraggiosi, anche di fronte alle situazioni più difficili. Oggi è il motto dell’Università degli studi Milano-Bicocca e del lancia missili “Audace” della Marina Militare Italiana.
Per aspera ad astra: (per aspera sic itur ad astra), letteralmente attraverso le asperità alle stelle. La locuzione già cara a Platone venne utilizzata anche da Lucio Anneo Seneca nel suo Hercules furente, che dovette affrontare le celebri dodici fatiche per raggiungere la fama eterna. Oggi la locuzione è riferita alle difficoltà che devono essere superate prima di arrivare al successo. Una curiosità: il compositore polacco Moritz Moskowski intitolò “Per aspera ad astra” , Op. 72, quindici studi di virtuosistici per pianoforte.
Sapere aude!: letteralmente “osa sapere”, nell’interpretazione significa “abbi il coraggio della tua intelligenza”. L’espressione è riferibile a Orazio, ma nella modernità divenne il principio ispiratore dell’Illuminismo grazie a Immanuel Kant, che la pronunciò per spiegare la centralità della ragione e della conoscenza, unici mezzi con i quali l’uomo avrebbe potuto superare la sua condizione primitiva. Oggi è un’esortazione a utilizzare l’intelligenza e la conoscenza per raggiungere nuovi traguardi e favorire il progresso per il bene collettivo.