Nonostante le ricchezze ospitate, il sistema d’allarme è fuori uso da tempo. I tre uomini, giunti al secondo piano, forzano senza difficoltà una delle finestre e, in men che non si dica, sono dentro. Si dirigono dritti verso la stanza degli italiani, staccano dal muro sette capolavori: un paio di Tintoretto, un Giorgione, altri due del Tiepolo e per finire due di Raffaello, “Ritratto di Giovane” e l’inestimabile “Madonna Esterhàzy”.
Quest’ultima è un piccolo quadro al quale il giovane Raffello doveva essere particolarmente legato: si pensa fosse una sorta di “diario” per ricordargli di quando lasciò Firenze per Roma, dove scrisse le più belle pagine della storia dell’arte. Nella Città Eterna proseguì il dipinto iniziato in Toscana, lo si deduce dai resti del Foro Romano rappresentati sullo sfondo, ma non lo portò a termine, rimanendo ancora visibile il disegno preparatorio da eliminare con le ultime pennellate di rifinitura.
Torniamo al nostro furto: dopo appena una ventina di minuti i tre sono già fuori con il ricco bottino, dove due complici ungheresi li attendono a bordo di un’auto con la quale si allontanano indisturbati. Tutto secondo i piani.
Sino alla tarda sera di domenica 6 novembre nessuno si accorge di nulla, poi la notizia si diffonde a gran voce: il fatto è su tutti i notiziari del mondo. Nel frattempo la Polizia ungherese indaga: sul luogo del delitto si rinviene un cacciavite sul quale è impressa la dicitura “USAG”. Indizio o depistaggio? Qualche giorno dopo da un fiume emerge un sacco di iuta, dentro ci sono le cornici dei sette capolavori rubati: all’interno vi è un’etichetta che reca un marchio di fabbricazione, dove si legge “Porto Marghera”, località industriale vicino a Venezia, mentre si accerterà che il cacciavite non è americano, bensì prodotto da un’azienda milanese.
La pista si sposta in Italia: inizia una stretta collaborazione investigativa tra i Carabinieri del Nucleo Tutela dei Patrimonio Artistico e la Polizia ungherese. Un altro particolare balza agli occhi: negli stessi giorni del furto, in Ungheria scompare una ragazza di sedici anni, che parla perfettamente l’italiano. Si segue anche quella pista: poco tempo e la giovane viene rintracciata in ambienti di dubbia fama, messa alle strette confessa quasi subito.
Era stata avvicinata da due italiani, si innamorò di uno di loro e per questo accettò di aiutarli, trovando un paio di complici che avrebbero dovuto fare da palo durante l’operazione. Identificati i due balordi, ben presto vennero acciuffati: in sede di interrogatorio, uno dei due raccontò il piano in ogni dettaglio, comprese le diverse ricognizioni effettuate nei giorni precedenti al furto per capire i tempi del giro delle guardie e per accertare quali fossero le misure di protezione poste a tutela delle opere.
Specificarono che la loro ricompensa per la collaborazione fu il “Ritratto di giovane” di Raffaello, valore 17 miliardi di lire dell’epoca, che pensarono bene di seppellire in un campo poco distante in attesa di tempi migliori per monetizzare. In breve il dipinto venne ritrovato in buone condizioni.
Nel frattempo, in Italia, i Carabinieri proseguono una meticolosa indagine alla vecchia maniera: indizi e riscontri, vagliati senza i grandi supporti tecnologici di oggi, portano in un bar di Reggio Emilia. Vengono identificati due personaggi, tali Ivano Scianti e Graziano Iori, i cui nomi erano già spuntati in altri reati connessi al mondo dell’arte.
Un altro nome emerge dall’indagine: si tratta di un certo Morini, proprietario di una Fiat Ritmo rossa, il quale che da qualche tempo viaggiava con una Citroen a noleggio. Che fine aveva fatto la Ritmo Rossa?
Gli inquirenti incrociano queste informazioni con gli ungheresi i quali, con un certosino lavoro di controllo delle immagini della frontiera, riferiscono che effettivamente una vettura identica a quella indicata aveva varcato il confine poco dopo il furto in direzione della Jugoslavia.
Il Morini venne sottoposto a interrogatorio: consapevole del rischio di finire in un carcere ungherese, iniziò con le prime ammissioni, dichiarando che la Ritmo Rossa si trovava presso un’officina meccanica in Grecia, essendo rimasto in panne durante una vacanza. Gli investigatori ritennero piuttosto strano il mese di novembre per andare in vacanza in Grecia…
Tutte le piste portano al mondo dei trafficanti di opere d’arte: la mente della banda risulta essere Scianti, ma né lui, né Iori risultano reperibili. Viene, quindi, allertata la Polizia greca, la quale accerta che, nei pressi del luogo dove sarebbe stata ricoverata la Ritmo rossa, vive un ricco appassionato di opere d’arte.
Ormai il cerchio si stringe e i quadri diventano difficilmente piazzabili, c’è troppo clamore intorno al caso, il mondo intero attende notizie; il timore è che vengano distrutti.
Invece, si verifica la svolta: una telefonata anonima perviene al capo del Servizio Interpol della Grecia, rivelando il luogo dove si sarebbero potuti ritrovare i sei dipinti rubati. Le Forze dell’Ordine si precipitano sul posto e in una cassa ritrovano le tele: tutte più o meno in buono stato.
C’è anche la Madonna Esterhàzy, forse quella che ha subito il danno maggiore, una crepa longitudinale dovuta al fatto di essere stata piegata, ma nulla di irreparabile. La notizia del ritrovamento fa il giro del mondo, con grandi onori alle Forze dell’Ordine di tutti i paesi coinvolti, evidenziando la grande efficacia della cooperazione investigativa internazionale.
Tralasciando le dimissioni della direttrice del Museo e altri vari strascichi, vi è dire che all’esito della celebrazione dei processi le pene comminate dagli ungheresi furono molto più severe di quelle dei Giudici italiani. I due complici di Budapest vennero condannati rispettivamente a 5 e 11 anni, mentre la ragazza minorenne, dopo il processo d’appello, rimase in libertà con l’obbligo di rigare dritta.
Gli italiani, autori materiali del fatto, furono condannati a pene comprese tra i 4 anni e 9 mesi e i 4 anni e sei mesi.
Il 30 dicembre del 2014, Ivano Scianti rilasciò un’intervista al quotidiano “Gazzetta di Reggio” dove raccontò tutta questa rocambolesca storia, compreso il clamoroso errore del cacciavite che pensavano fosse di fabbricazione americana, lasciato nel tentativo di depistare le indagini verso l’ipotesi del complotto contro un paese comunista, nonché del sacco di iuta con l’etichetta italiana. Tutto venne raccontato… tranne il nome del vero mandante del furto del secolo.