Il rosso: passione, potere e giustizia

“Red is a very emotionally intense color. It enhances human metabolism, increases respiration rate, and raises blood pressure. It has very high visibility, which why stops signs, stoplights and fire equipment are usually painted red.” (The Game Feat. Kendrik Lamar)

Il rosso è il Colore per antonomasia: simbolo d’amore, potere e passione, ma anche di pericolo, delitto e peccato. È il colore dell’opulenza e della festa, del Natale e della laurea, ma sottende anche un retaggio di violenza, ira e  sangue.

Il rosso ha trovato spazio nella storia sin dall’antichità: si racconta della terribile gelosia di Marte scatenata dall’amore di Afrodite per il bellissimo Adone. Per punire l’affronto il Dio della Guerra fece in modo di ferire a morte il giovane. Nel soccorrerlo la Dea si punse il piede con le spine di una rosa bianca: le gocce del suo sangue tinsero di rosso le rose, mentre dal sangue di Adone nacquero gli anemoni.

Anemoni, Monet

Secondo una versione diversa, dalle lacrime di Venere per la perdita dell’amato nacquero le fragole, da sempre considerate il frutto dell’amore per il colore, la forma  a cuore e la dolcezza del sapore; forse per questo Otello donò a Desdemona un fazzoletto con delle fragole ricamate e il Re Sole le abbinava alla panna ritenendole afrodisiache.

Natura morta, Fragole, Gianluca Corona

Il rosso è anche simbolo del potere: nella Roma imperiale era riservato all’Imperatore e ai condottieri; nel Medioevo era simbolo di distinzione sociale, in quanto la preparazione era molto costosa: il rosso più bello e luminoso, detto “Chermes” si ricavava dalla femmina di un insetto il “Coccus ilicis”, diffusa in Estremo Oriente, molto difficile da reperire; per questo era riservato ai Signori dell’epoca e simboleggiava il lusso per eccellenza.

In alcune città i tintori dovevano avere una licenza particolare per il rosso e a Venezia quelli che tingevano con il rosso meno pregiato ricavato dalle radici della robbia non potevano utilizzare il rosso “Chermes”.

Tra il XIII e il XIV secolo anche il Papa optò per il rosso, abbandonando parzialmente il bianco: Raffello nel 1511 nel celebre dipinto della “Barba del Papa” ritrasse un ormai anziano Papa Giulio II, mentre nel 1518 fu il turno di Leone X.

Giulio II, Raffaello, Galleria Palatina

Papa Leone X, Raffaello, Galleria degli Uffizi

Entrambi indossano il “Camauro”, il copricapo rosso foderato internamente di ermellino, tipico del Papa e destinato alle udienze private a differenza della  papalina che può essere di vari colori a seconda del grado gerarchico ed è utilizzata durante le cerimonie; anche la “Mozzetta” è rossa, pur cambiando colore e bordatura nel corso dell’anno liturgico, durante il periodo pasquale può essere damascata bianca.

Papa Ratzinger con moffetta periodo pasquale

Papa Ratzinger

Di rosso vestono  i Cardinali, Principi della Chiesa, perché sono pronti a versare il loro sangue per Cristo, mentre le calzature rosse dei Papi simboleggiano che la Cristianità si fonda sul sangue dei martiri.

Il rosso diventò il colore dei “Papisti”, inviso ai Protestanti che ancora oggi lo ritengono un colore immorale.

Nelle occasioni solenni, come l’inaugurazione dell’anno giudiziario, il Primo Presidente e il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione indossano la toga di velluto rosso bordata di ermellino, con il  copricapo  di velluto nero anch’esso bordato di ermellino e guanti bianchi, mentre la toga degli altri magistrati delle Corti superiori è anch’essa rossa ma senza bordature. 

Il colore rosso e la bordatura pregiata affondano le loro radici nei simboli del potere dei regnanti, mentre oggi indicano la dignità e i gradi più elevati nella gerarchia della Magistratura.

Nello svolgimento dell’ordinaria attività processuale penale e di fronte alle Sezione Specializzate Agrarie, magistrati e gli avvocati indossano la toga nera con cordoniera d’oro per i magistrati e gli avvocati abilitati al patrocinio nelle Corti Superiori, d’argento per gli altri avvocati

Indossare la toga è sempre un onore: essa rappresenta l’altissima funzione a cui sono chiamati avvocati e magistrati nell’esercizio delle loro funzioni  e come scriveva Calamandrei “La toga, uguale per tutti, riduce chi la indossa ad essere, a difesa del diritto un avvocato: come chi siede al banco è un giudice, senz’aggiunta di nomi o titoli”.

 

 

 

 

 

Per approfondire:

Elogio dei Giudici scritto da un Avvocato”di Pietro Calamandrei, Ed. Ponte alle  Grazie

Le Garzantine Mitologia: “I miti greco-romani raccontati da Pierre Grimal” Garzanti

“Il piccolo libro dei colori” Dominique Simonetta Ed. Ponte alle Grazie

J’accuse…!

Politica, spionaggio e il potere della stampa: l’Affaire Dreyfus, il caso che fece tremare la Francia.

Nell’ottobre 1894 Alfred Dreyfus Capitano d’Artiglieria dello Stato Maggiore dell’Esercito francese, ebreo alsaziano, venne arrestato con l’accusa di alto tradimento, sospettato di aver fornito ai militari prussiani informazioni riservate.

Fotografia del Colonnello Alfred Dreyfus

Il Colonnello Alfred Dreyfus

L’indagine ebbe inizio quando un’addetta alle pulizie presso l’Ambasciata tedesca a Parigi, all’atto di ripulire uno dei cestini degli uffici, ritrovò una lista  (chiamata “bordereau”)  contenente cinque documenti segreti che l’anonimo mittente offriva in vendita ai tedeschi.

Immagine del Bordereau

Il Bordereau

La donna, che in realtà faceva parte del controspionaggio, consegnò il bordereau agli Ufficiali francesi:  dato il particolare contenuto del documento, i sospetti si concentrarono subito attorno a pochi ufficiali. La necessità di una rapida individuazione del colpevole portò a una sbrigativa e sommaria indagine, tutta basata  su una superficiale perizia calligrafica, secondo cui la scrittura del documento apparteneva al Capitano Dreyfus.

Processato in pochi mesi, Alfred Dreyfus, nonostante avesse professato la propria innocenza e totale estraneità ai fatti, fu condannato all’ergastolo,  degradato ritualmente davanti a truppe schierate, la sua sciabola spezzata e deportato nell’Isola del Diavolo, sperduta nella Guyana francese: per la Repubblica l’onta del tradimento era stata lavata e nessuno avrebbe più sentito parlare di quell’Ufficiale ebreo alsaziano.

Passarono un paio d’anni durante i quali vennero più volte reiterate le richieste di un approfondimento d’indagine da parte dei familiari di Dreyfus, ma per l’apparato militare il caso era da considerarsi definitivamente chiuso.

Inaspettatamente le circostanze mutarono: all’epoca il Colonello George Picquart era stato nominato a capo del Servizio Informazioni dello Stato Maggiore; per una pura coincidenza Picquart intercettò la missiva di un Ufficiale prussiano indirizzata al Maggiore dell’esercito francese Ferdinand Walsin Esterhazy, di nobili  (ma decadute) origini ungheresi.

Immagine del Colonnello Geroge Picquart

Il Colonello George Picquart

Immediatamente Picquart ripensò ai fatti che portarono alla condanna di Dreyfus e ottenne di poter visionare il fascicolo secretato: dai documenti agli atti risultava evidente che la calligrafia del bordereau  era stata erroneamente attribuita a Dreyfus, atteso che invece palesemente inchiodava Esterhazy.

Picquart riferì ai suoi superiori le proprie scoperte: gli Alti Ufficiali dell’esercito francese non si rivelarono affatto entusiasti di riconsiderare il caso dell’Ufficiale ebreo, condannato e deportato. La ragion di Stato e il potere del corpo militare francese non potevano piegarsi ad ammettere che la condanna di Dreyfus fosse un  clamoroso errore giudiziario.

Per tale ragione, nonostante le evidenze probatorie, Esterhazy sottoposto a processo venne assolto.

Il clamore per l’assoluzione portò alla pubblicazione in due famosi quotidiani di alcuni documenti segreti del fascicolo Dreyfus, da cui risultava la diversità della calligrafia di tali scritti rispetto a quella del condannato.

Il richiesta di verità dilagò e divise nettamente nell’opinione pubblica tra innocentisti e colpevolisti, coinvolgendo anche gli ambienti intellettuali maggiormente inclini a sostenere l’innocenza di Dreyfus.

La svolta avvenne il 13 gennaio 1898, quando il quotidiano L’Aurore pubblicò una lettera aperta dello scrittore Emile Zola, rivolta al Presidente della Repubblica francese: si trattava di un vero e proprio atto d’accusa, sostenuto dal celebre “J’accuse…” (io accuso), rivolto a ognuno dei responsabili dell’Affaire Dreyfus: il testo di Zola ebbe un effetto dirompente e scosse le coscienze, svelando la verità sulle macchinazioni di un’indagine scellerata e assolutamente parziale, sulle dichiarazioni fraudolente e menzognere dei periti, nonché sull’insabbiamento agli occhi dell’opinione pubblica.

L'immagine rappresenta la prima pagina del quotidiano L'Aurore con la lettera J'accuse di Emile Zola

J’accuse… di Emile Zola

Quell’edizione del quotidiano vendette oltre 300.000 copie (di media ne vendeva 20.000 al giorno) e la verità irruppe fragorosa anche in sede giudiziaria: Esterhazy confessò di essere la spia, Dreyfus ottenne la revisione del processo, ma il potere della Ragion di Stato non intendeva ancora cedere il passo alla giustizia e, incredibilmente, Dreyfus venne nuovamente condannato in primo grado per essere poi definitivamente assolto in appello con immediata reintegrazione nell’esercito.

Il J’accuse di Zola è sempre attuale, merita di essere letto e ricordato, non solo come alto grido di libertà, ma anche quale espressione del valore assoluto della verità  e della giustizia.

L'immagine rappresenta La Giustizia, Raffaello, Volta della Segnatura

La Giustizia, Raffaello, Volta della Segnatura

 

Per approfondire:

“L’affaire Dreyfus” di Emile Zola, Ed. Giuntina; www.raistoria.rai.it “L’affaire Dreyfus”; www.raistoria.rai.it “J’accuse”

Vendetta e giustizia

La vendetta non ha tempo: la riparazione del torto subito tesa a ristabilire la rottura dell’equilibrio per effetto del crimine, nasce con l’uomo ed è strettamente connaturata alla sua natura.

Nella Grecia antica la vendetta privata doveva essere proporzionata all’offesa, in tal modo si dimostrava anche il valore e la superiorità della vittima, la quale riacquistava il prestigio compromesso a causa del torto .

La vendetta non era un tratto peculiare soltanto degli uomini; anche gli Dei dell’Olimpo e gli eroi della mitologia  sapevano essere particolarmente vendicativi; il perdono e la nobiltà d’animo non erano certamente connotati di quelle divinità, dedite prevalentemente a vendette e ripicche consumate in ogni dove.

Si ricorda che  Eros, il Dio dell’Amore, tramò una sottile  vendetta nei confronti di Apollo, il quale l’aveva denigrato per non aver mai compiuto azioni eroiche, essendosi sempre limitato a scoccare frecce d’amore.

Eros Dio dell'Amore

Eros Dio dell’Amore

Per lavare l’offesa Eros centrò il cuore del Dio con uno dei suoi dardi d’oro facendolo perdutamente innamorare della ninfa Dafne; a lei scoccò una freccia di piombo, il cui effetto fu la totale repulsione per il bellissimo Dio del Sole.

Apollo le provò tutte: la inseguì, le elencò suoi poteri, tentò di convincerla in ogni modo, ma non ci fu nulla da fare;  stremata dal serrato corteggiamento di Apollo, la ninfa chiese aiuto al padre: fu così che, nel momento in cui il Dio del Sole la raggiunse, lei si trasformò in un bellissimo albero di alloro, lasciandolo solo con i suoi tormenti d’amore.

L'immagina raffigura un particolare di Apollo e Dafne - Gian Lorenzo Bernini, Galleria Borghese, Roma

Particolare di Apollo e Dafne – Gian Lorenzo Bernini, Galleria Borghese, Roma

Neppure gli eroi omerici potevano vantare condotte nobili e onorevoli. Il Pelide Achille non ci pensò due volte a ritirarsi dalla battaglia contro i troiani, lasciando i compagni in balia del nemico, perché Agamennone aveva liberato Briseide, la schiava di guerra assegnatagli in premio. Soltanto l’ardente desiderio di vendetta, scatenato dalla morte dell’adorato Patroclo per mano di Ettore, lo fece tornare sui suoi passi e la sua furia fu assoluta.

L'immagina raffigura il dipinto L'ira funesta di Achille di Charles Antoine Coypel

L’ira funesta di Achille – Charles Antoine Coypel

Neppure alcuni episodi della Bibbia sono esenti da tratti vendicativi. Giuditta – devota a Dio – non si fece tanti scrupoli con Oloferne: per salvare il suo popolo dall’assedio del re assiro, lei – bellissima e splendidamente abbigliata – si recò insieme alla sua serva presso la tenda di lui, manifestando l’intenzione di tradire la sua gente.

Oloferne – ovviamente – non resistette a cotanta beltà, la invitò prontamente al banchetto e poi a concludere la serata nel suo alloggio. Le cose non andarono come il re aveva immaginato: avendo ecceduto nei brindisi, Oloferne cadde presto in un sonno profondo. L’occasione era perfetta: lei prese rapida la spada e gli tranciò di netto la testa, riponendola in un cesto per le vivande. Poi, fece ritorno vittoriosa dal suo popolo.

L'immagina raffigurala il dipinto Giuditta con la testa di Oloferne di Botticelli, Galleria degli Uffizi, Firenze

Giuditta con la testa di Oloferne – Botticelli, Galleria degli Uffizi, Firenze

Con il tempo e il progredire degli ordinamenti, le vendette private truculente e senza  controllo  furono  sostituite dalle sanzioni comminate dallo Stato.

Una legge risalente agli anni 621- 620 a. C. vietò agli ateniesi la vendetta privata, prevedendo  una pena irrogata dallo Stato: la morte per l’omicidio volontario e l’esilio per quello involontario.

Inizialmente la pena aveva natura retributiva: lo Stato puniva con la sanzione il crimine commesso; in altre parole, veniva inflitto un castigo per il male di cui il soggetto si era reso responsabile.

Ben presto fiorirono le prime idee secondo cui la sanzione dovesse avere anche un effetto deterrente verso il compimento di futuri delitti: Platone sosteneva che la virtù potesse essere insegnata grazie alla pena così da garantire una maggiore sicurezza della collettività, mentre la natura retributiva passava in secondo piano.

Erano i primi barlumi dei caratteri della pena moderna, la quale presenta da un lato elementi di sanzione retributiva irrogata per il danno provocato alla collettività, dall’altro deve avere una finalità rieducativa, essendo tesa a riportare il reo sul giusto binario della legalità.

Per tali ragioni il nostro ordinamento riconosce diversi istituti premianti favore del detenuto,  concessi ben prima della scadenza della pena. E’ comprensibile che le parti offese fatichino  a comprendere tali “premi”, che vengono vissuti con  grande frustrazione, senso di abbandono  e  ingiustizia per l’evidente incertezza dell’entità della condanna.

L'immagina raffigura un particolare della Toga dei Giudici della Corte di Cassazione

Particolare della Toga dei Giudici della Corte di Cassazione

Negli ultimi trent’anni negli Stati Uniti e in Inghilterra sono sorti diversi movimenti a sostegno e tutela dei diritti delle vittime (Victim’s Rights Movements), i quali hanno portato alla presentazione di istanze avanti alla Corte Suprema americana per ottenere l’ammissione nella  “Sentencing phase” (fase di determinazione della pena dopo la condanna) delle testimonianze dei familiari delle parti offese. La finalità di queste richieste è quella di  portare agli occhi della Corte la sofferenza e il patimento subito dalla vittima e dalla sua famiglia per effetto del crimine.

L'immagina raffigura la Corte Suprema degli Stati Uniti d'America a Washington DC

Corte Suprema degli Stati Uniti d’America – Washington DC

I giudici statunitensi non hanno avuto decisioni unanimi sul punto, ma la questione è un’altra: oggi diversi studiosi sostengono che le vittime dovrebbero avere più voce, così da essere aiutate anche psicologicamente a superare il trauma subito.

Anche nel nostro paese da  più parti si auspica una riforma del sistema sanzionatorio: non si chiede di abbandonare il principio della finalità rieducativa della pena, ma che siano introdotti correttivi diretti a  garantire l’effettività della sanzione e la certezza del diritto, quale fondamentale e primaria espressione di civiltà di un moderno ordinamento giuridico.

 

 

 

Per approfondire:

E. Cantarella “Il ritorno della vendetta” ed. Bur 2007; L. Delpino “Diritto Penale – Parte Generali” Ed. Simone 2000