Una volta di stelle per rimettere il peccato.

La storia racconta di uomini che per redimersi da condotte disdicevoli, o peggio, hanno ritenuto di poter espiare i loro torti senza scontare la giusta sanzione, realizzando magnifiche opere destinate alla collettività, con il sotteso fine di lavarsi la coscienza davanti a Dio e alla Società.

Il Diritto Perfetto - Cappella degli Scrovegni

La storia della Cappella degli Scrovegni, capolavoro patavino frutto della delicatissima e innovativa mano di Giotto, non si discosta molto da tali abitudini: secondo le fonti, Enrico Scrovegni, esponente della nobile famiglia padovana, il 6 febbraio del 1300 acquistò da Manfredo Dalesmanini il terreno su cui – ancora oggi – sono visibili i resti di un’antica arena romana. Sembra che la compravendita sia stata agevolata dalla necessità del venditore di risolvere una difficile situazione finanziaria.

All’epoca gli Scrovegni potevano contare su un ingente patrimonio, frutto della sfrenata attività di usuraio di Reginaldo – padre di Enrico – il quale era odiato e detestato come nessun altro dai concittadini per aver crudelmente tratto ingenti profitti dalle loro difficoltà. Pare che alla sua morte, avvenuta nel 1301, il popolo volesse saccheggiare e dare alle fiamme il palazzo di famiglia, che si trovava dove oggi sorge il Palazzo del Monte di Pietà, vicino al Duomo.
L’odiosa pratica dell’usura ha radici nel tempo immemore ed è stata oggetto di ferme condanne dall’antichità sino ai giorni nostri ma, nonostante questo, risulta essere una piaga quasi impossibile da debellare.

Il Diritto perfetto - Cappella degli Scrovegni

La Cappella degli Scrovegni – Dettaglio


Ora come allora, tale condotta costituisce un crimine punito con severe sanzioni, in ragione della spiccata pericolosità sociale attribuitagli dall’ordinamento: per questo motivo l’originaria formulazione del reato del codice Rocco è stata ampliata, svincolandola dal presupposto dello stato di bisogno della vittima – troppo restrittivo per un’efficace politica criminale – spostandolo sull’ampio piano della difficoltà economica o finanziaria.
Purtroppo le cifre reali dell’usura sono difficilmente accertabili, vista la persistente ritrosia delle vittime a sporgere denuncia, sia per paura di ritorsioni e ricatti della più svariata natura, ma anche per un senso di vergogna connesso al fatto di essere stati costretti a ricorrere a un prestito usurario.
Questo forte elemento psicologico ha indotto il Legislatore a introdurre un Fondo di solidarietà per le vittime dell’usura, con l’obiettivo di motivare una reazione difensiva che consenta allo Stato la giusta e doverosa repressione di quest’indegno fenomeno.

Il Diritto perfetto - Cappella degli Scrovegni

La Cappella degli Scrovegni – Dettaglio


Per il fermo il disprezzo di tale delitto, Dante mandò lo Scrovegni padre dritto all’inferno, mentre il figlio – quasi se la sentisse – decise di erigere sul terreno dell’arena romana una Cappella, dedicata alla Vergine Annunziata, al fine riscattare l’anima perduta del genitore e nel contempo lavare – in via preventiva – anche la sua.
Durante i lavori di edificazione vibranti proteste furono sollevate dai frati Agostiniani del vicino monastero degli Eremitani, i quali denunciarono la difformità delle opere realizzate rispetto al progetto approvato dal Vescovo. Le doglianze dei religiosi erano fondate, poiché si stava subdolamente edificando una Chiesa – e non una Cappella privata – con tanto di campanile annesso. Questo avrebbe provocato un danno irreparabile per la vicina comunità di frati i quali avrebbero subito la concorrenza di questo nuovo edificio di culto.
Non vi è documentazione certa sull’esito della controversia, ma pare che gli Agostiniani l’abbiano avuta vinta, visto che non c’è traccia del campanile e le dimensioni del fabbricato sono quelle consone a una Cappella privata.
Per le decorazioni Scrovegni convocò Giotto, il pittore più in voga del momento, il quale aveva – tra l’altro – già provveduto ad affrescare Assisi.
L’artista realizzò un capolavoro – completamente restaurato nel 2002 – incentrato sul tema della salvezza e riconciliazione dell’umanità: la nota di modernità introdotta da Giotto fu chiaramente spiegata dal Vasari, il quale osservò come, per la prima volta nella storia della pittura, furono rappresenti gli affetti e le attitudini dell’uomo, la felicità, l’ira, il pianto e anche i colori riproducevano la più vivida realtà.
Un particolare è degno di nota e si colloca nell’ambito dell’antica rivalità tra le città di Padova e Venezia: si racconta che nella realizzazione del Giudizio Universale, che occupa la parete in fondo e conclude il ciclo delle Storie raffiguranti la redenzione umana, Giotto s’ispirò (c’è chi dice che fu molto di più di un’ispirazione) al Giudizio Universale della Chiesa della Santa Maria Assunta al Torcello, uno splendido mosaico di trecento anni prima. Diversi dettagli, quali la posizione del Cristo e il sangue che scorre per divenire fiamma dell’inferno, possono far supporre che l’artista avesse dato un’occhiata al mosaico veneziano, anche se la vera innovazione dell’opera patavina sta nei dannati collocati alla base dell’affresco. Per la prima volta sono rappresenti con dovizia di dettagli, in tutta la loro cruda e truculenta realtà, quasi a voler significare al mondo dei vivi l’eterna e ineluttabile dannazione delle anime perdute.

Per approfondire:

Fiandaca Musco “Diritto Penale Parte speciale – I delitti contro il patrimonio” ed. Zanichelli 2009

Philippe Daverio “Guardar lontano Veder vicino” Ed. Rizzoli 2013; 

treccani.it/scrovegni O. Ronchi; 

giuseppebasile.org/restauri/lacappelladegliscrovegni

www.giottoagliscrovegni.it

Un Angelo troppo bello…

Si racconta che un giovanissimo Leonardo lavorasse come apprendista presso la Bottega di Andrea Verrocchio a Firenze, quando il Maestro, intento a realizzare il “Battesimo di Cristo”, gli chiese di dipingere un angelo nell’angolo in basso a sinistra della tela: Leonardo, che già padroneggiava egregiamente la nuova tecnica della pittura a olio, realizzò un'incantevole figura, in una posizione del tutto naturale, con una bionda capigliatura fluente e lo sguardo limpido rivolto al Signore.
Il Diritto Perfetto - Vergine delle Rocce - Leonardo da Vinci

Il Vasari racconta che alla vista di cotanta bravura e bellezza “…l’Andrea mai più volle toccare i colori, sdegnatosi che il fanciullo ne sapesse più di lui…”. Il talento di Leonardo era evidente e straordinario, ma nonostante questo gli esordi non furono facili e, quando pareva avere “campo libero” a Firenze – atteso che gli artisti più anziani e quotati si erano trasferiti a Roma – fu mandato da Lorenzo il Magnifico a Milano presso la Corte del suo alleato Ludovico Sforza.
Qui entrò in società con i fratelli De Predis titolari di una loro bottega: gli artisti ricevettero una commissione da parte della Confraternita di Santa Maria della Concezione, avente ad oggetto – tra l’altro – la realizzazione da parte di Leonardo di una Madonna con Angeli e Santi.
Pare che tra le parti fosse stato sottoscritto un contratto, con la precisa descrizione della prestazione dovuta, compreso il colore delle vesti, il modo in cui i personaggi dovevano presentarsi e lo stile dell’opera.
Leonardo, per essere adempiente ai propri obblighi avrebbe dovuto attenersi alle condizioni contrattuali, ma è noto che genio e regole raramente vanno d’accordo e per l’artista i contratti erano una mera formalità.
Discostandosi clamorosamente dalle istruzioni pattuite, Leonardo realizzò un’opera straordinariamente bella, ma del tutto diversa da quella richiesta: il dipinto rappresentava un episodio che neppure compare sulla Bibbia, secondo gli storici dell’arte la fonte ispiratrice sarebbe nei Vangeli apocrifi, ovvero quelli mai approvati dalla Chiesa. Nessuno prima di allora aveva osato pensare di raffigurare una scena tratta da tali testi per una pala d’altare.
Difficile non riscontrare un inesatto adempimento della prestazione resa dall’artista, la quale – secondo la committente – andava ben oltre la “libera interpretazione” dell’episodio da rappresentare.
Oltre a questo, attraeva l’attenzione la figura dell’Angelo Uriel: la creatura divina portatrice di luce era talmente bella da essere considerata quasi inquietante, il suo sguardo magnetico, leggermente enigmatico, in modo del tutto inusuale era rivolto fuori dal quadro verso lo spettatore e quel viso era così perfetto da sembrare quello di una ragazza. Era troppo.
Prevedibilmente, committenti non furono per niente soddisfatti dell’opera e rifiutarono il pagamento concordato, offrendo una somma molto inferiore a quanto richiesto a saldo dagli artisti.
La controversia proseguì per qualche tempo, senza esiti positivi, tanto è vero che de Predis minacciò di vendere l’opera a terzi pronti a pagare un prezzo ben più alto.
Ludovico il Moro cercò di mediare tra le posizioni dei due contendenti, aprendo una vera e propria negoziazione, con tanto di “Consulenza tecnica” dell’epoca: vennero, infatti, convocati diversi esperti cosicché fossero rappresentate tutte le parti in causa; i consulenti avevano anche il potere di conciliare la lite – esattamente come accade oggi – ma non si raggiunse alcun accordo, ipotesi frequente anche questa ai giorni nostri.

Il Diritto Perfetto - Vergine delle Rocce - Leonardo da Vinci dettaglio

Vergine delle Rocce di Leonardo da Vinci – Dettaglio


Fu così che la Pala venne rimossa per volere degli artisti e si aprì un lungo contenzioso, che porterà Leonardo a dipingere una seconda versione della Vergine delle Rocce – oggi conservata a Londra – leggermente diversa: l’Angelo, sempre bellissimo, diventa una presenza più discreta, il suo sguardo non è più rivolto allo spettatore e anche il gioco di luce è riservato ai soli personaggi, mentre altre correzioni riguardanti il piccolo San Giovanni ne fanno una rappresentazione più accettabile per la committente, che posizionerà l’opera sull’altare della cappella dov’era destinata.
Il pagamento andò a buon fine, anche se l’attesa durò venticinque anni, in quanto gli artisti incassarono l’ultima rata del prezzo nel 1508.
La prima versione del capolavoro, esposta al Musèe du Louvre, rimane certamente quella più suggestiva e seppur siano passati più di cinquecento anni da quando la mano di Leonardo diede vita a quella meravigliosa efebica divina creatura, nessuno mai è rimasto inerte di fronte al suo languido sguardo in tralice.

Per approfondire:

“Il Leonardo segreto” di C. D’Orazio ed. Pickwick

La potenza dell’immagine tra appalti e subappalti.

Tra gli appalti più celebri della storia possiamo ricordare quello conferito da Papa Giulio II a Raffaello Sanzio. Dopo aver creato un forte Stato temporale, il Pontefice commissionò ai più noti maestri del tempo la realizzazione di opere d’arte di assoluta bellezza e dallo straordinario potere evocativo, al fine di rappresentare ed esaltare la potenza della Chiesa, avviando così la più intensa campagna d’immagine e comunicazione del Rinascimento.
Il Diritto Perfetto - La Scuola di Atene

I presupposti per garantire il massimo successo del progetto c’erano tutti, atteso che egli poté convocare alla sua corte artisti del calibro di Michelangelo, Raffello e non ultimo Bramante, al quale commissionò la realizzazione della nuova chiesa di Roma, quella che poi diverrà la Basilica di San Pietro.
Tra tutti questi grandi maestri Raffaello è forse il più interessante, non solo perché appena venticinquenne era noto per il garbo, l’eleganza e la raffinata educazione, ma soprattutto per come il giovane appaltatore gestì con maestria e sottile intelligenza la complessa situazione conseguente all’incarico di affrescare gli appartamenti privati del Papa.
Giulio II, infatti, aveva categoricamente rifiutato di occupare quelli precedentemente abitati da Papa Alessandro VI Borgia, per via della condotta non proprio specchiatissima del suo predecessore.

Il Diritto Perfetto - Il Parnaso - Raffaello

Il Parnaso – Raffaello


Raffaello accettò di buon grado l’appalto, ma i lavori erano già in parte iniziati e alcune opere realizzate da altri noti maestri del tempo, tra i quali spiccava il nome di Lorenzo Lotto. Per questi ultimi l’incarico al giovane artista rappresentava un grave danno, sia in termini patrimoniali che d’immagine.
Di questo Raffaello era ben consapevole, così come aveva coscienza di non avere l’esperienza necessaria ad affrontare da solo un’opera titanica come quella assegnatagli; quindi, optò per una soluzione alquanto innovativa e moderna: egli non allontanò i vecchi maestri, ma strinse con loro una proficua collaborazione.

Il Diritto Perfetto - Disputa del Sacramento

Disputa del Sacramento – Raffaello


Di fatto si perfezionarono dei contratti di subappalto, che conferivano ai vecchi maestri specifici incarichi e precise mansioni, il tutto sempre sotto la completa supervisione di Raffaello.
Il risultato fu epocale: la sola stanza della Segnatura regalò al mondo capolavori inarrivabili come la “Scuola di Atene” o la “Virtù e la Legge”.

Lo spirito imprenditoriale del giovane urbinate non si fermò qui: egli si circondò di giovani allievi, in una sorta di apprendistato dell’epoca, i più dotati divennero veri e propri collaboratori del maestro, portando alla nascita della Bottega di Raffaello.


Il lavoro dell’artista divenne così il frutto di un continuo e costruttivo confronto, dal quale nacquero capolavori di eterna perfezione e irraggiungibile bellezza.

Per approfondire:

A. Forcellino “Raffaello una vita felice” ed. spec. Corriere della Sera; C. D’Orazio “Raffaello Segreto” ed. Pickwick 2017

Michelangelo e l’inganno che gli valse la fortuna…

L’inganno, inteso come l’arte di far apparire vero ciò che è falso, costituisce il cuore della truffa, crimine di antica memoria, spesso perpetrato da menti con capacità particolarmente raffinate.
Il Diritto Perfetto - La pietà di Michelangelo

Pur essendo un reato contro il patrimonio altrui, di frequente viene visto con minor disvalore sociale rispetto al furto, verosimilmente per l’ingegno e la fantasia con cui il reo ha insidiosamente manipolato la realtà per percepire l’ingiusto profitto.
L’inganno può essere perfezionato con un raggiro di parole o argomentazioni, oppure con un artificio, ovvero la materiale alterazione della realtà, come quella che sembra essere stata realizzata da un giovanissimo Michelangelo Buonarroti.

Il Diritto Perfetto - Cupido Dormiente - Michelangelo

Cupido Dormiente – Michelangelo


Si racconta che tra il 1495 e il 1496 a Firenze l’artista fu contatto da due cugini di Lorenzo de Medici appena rientrati dall’esilio: giunti presso la bottega dell’artista, la loro attenzione fu attratta da un “Cupido dormiente” rappresentato nell’età di circa sei anni, a grandezza naturale; chiesero allo scultore se fosse possibile trattarlo per farlo sembrare antico, poiché avevano un compratore al quale potevano spacciarlo per autentico; per il lavoro gli avrebbero versato ben trenta ducati… un buon vantaggio per tutti.
Per alcune fonti, Michelangelo accettò la proposta; lavorò e affumicò il Cupido sino a che non risultasse antico di almeno un paio di secoli; lo consegnò ai due committenti, incassando il pagamento.
Qualche tempo dopo, uno dei due cugini de’ Medici ritornò presso la bottega dello scultore insieme a un gentiluomo giunto da Roma, tal Jacopo Galli: quest’ultimo chiese a Michelangelo di disegnare una mano; poco dopo lo schizzo fu pronto e il gentiluomo esclamò che non aveva dubbi su chi fosse allora lo scultore del falso Cupido antico venduto per duecento scudi al potente Cardinale Raffaele Riario, di cui Galli era il segretario. L’opera era senz’altro frutto dello straordinario talento del Buonarroti.
Jacopo Galli riferì che il Cardinale era piuttosto indispettito per la figuraccia conseguente all’ampia diffusione della notizia della truffa in suo danno, ma al contempo desiderava conoscere l’autore dello splendido Cupido e per tali ragioni invitava lo scultore a Roma.
Quando si dice la svolta della vita: Michelangelo accettò senza indugio e quando si trovò al cospetto del Cardinale, gli porse le sue scuse. Questi, da avveduto mecenate qual era, non sporse denuncia, ma volle che l’artista rimanesse presso la residenza del Galli, commissionandogli la scultura del Bacco, oggi esposta al Museo del Bargello a Firenze.
Sembra inizi così, con un condotta illecita rimasta impunita, l’ascesa nella Città Eterna dello scultore che – come nessun altro- ha saputo estrarre dal marmo più candido la fisicità intensa di un corpo umano o la sublime delicatezza di un volto di fanciulla.

Il Diritto Perfetto - La Pietà di Michelangelo - Dettaglio

La Pietà di Michelangelo – Dettaglio


Michelangelo non aveva ancora venticinque anni quando ricevette dal cardinale francese Jean Bilhères de Lagraulas, del titolo di Santa Sabina, ambasciatore del re di Francia, l’incarico di scolpire una Vergine con un Cristo morto da collocare presso la Cappella di Santa Petronilla, nella vecchia Basilica di San Pietro.
Jacopo Galli, che conosceva bene lo straordinario talento di Michelangelo ed era stato l’intermediario tra i due, prestò quasi una garanzia – anche se il termine è giuridicamente improprio – a favore dell’artista, scrivendo una lettera – oggi conservata presso l’Archivio di Stato – nella quale assicurava che la scultura sarebbe stata la più bella opera in marmo che Roma avesse mai avuto.
Michelangelo accettò la proposta e si recò a Carrara, dove si trattenne per nove mesi fintanto che trovò un blocco di marmo soddisfacente per lucentezza e perfezione.
Al suo rientro a Roma il rapporto negoziale venne formalizzato in un atto scritto datato 27 agosto 1498: si trattava di un contratto d’opera nel quale si specificava che il Cristo doveva essere a grandezza naturale. La peculiarità del contratto d’opera rispetto all’appalto, al quale spesso viene assimilato, va ravvisata nella predominanza del lavoro del persona rispetto agli altri mezzi a disposizione dell’obbligato (attrezzature, personale, immobilizzazioni…).
Nel caso di Michelangelo non è dubitabile l’assoluta dominanza della mano dell’artista in rapporto alla prestazione dovuta e ai mezzi a disposizione: si pensi che – secondo talune fonti- la delicata fase della levigatura del marmo, eseguita con pietra pomice, aveva portato conseguenze irreversibili alle mani dello scultore.
Il termine di consegna era fissato entro un anno dalla data della sottoscrizione del contratto, appena tre mesi in più del tempo occorso per procurarsi il marmo.

Il Diritto Perfetto - La Pietà di Michelangelo - Dettaglio

La Pietà di Michelangelo – Dettaglio


Dalla pietra Michelangelo estrasse un capolavoro assoluto: lascia attoniti la bellezza del giovane volto di Lei, quasi non potesse essere la madre figlio abbandonato sulle sue gambe, coperte da una veste dal panneggio ampio e morbido. Anche il volto del figlio ha lasciato andare la sofferenza, tutto trasmette una rassegnata serenità, quasi vi fosse – in fondo – la consapevolezza che con l’amore è stata vinta la crudezza della morte.
Roma rimase incantata dalla Pietà, come se fosse di fronte a qualcosa di prodigioso, mai visto prima per la sua lucentezza, lo splendore e la grazia, vera bellezza dell’anima.
La promessa di Jacopo Galli fu ampiamente mantenuta e mezzo secolo dopo Vasari colse più di ogni altro la meraviglia compiuta da Michelangelo, affermando «Non pensi mai, scultore né artefice raro, potere aggiungere di disegno né di grazia, né con fatica poter mai di finezza, pulitezza e di straforare il marmo tanto con arte, quanto Michelangelo vi fece, perché si scorge in quella tutto il valore et il potere dell’arte».

Per approfondire:

Fiandaca Musco “Diritto Penale Parte speciale” Vol. II, tomo secondo ed. Zanichelli pag. 170 e ss.

Costantino D’Orazio “Io sono fuoco” ed. Sperling & Kupfer 2018

Philippe Daverio “Il gioco della Pittura” ed. Rizzoli 2015

Vasari “Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori (1568)”, Grandi Tascabili Economici Newton, 2003)

L’immortale eterea bellezza.

"Vi è un lampo di vita fuggevole da acchiapparsi al volo ed egli l’esprime con un frego, in uno svolazzo, in un fiocco; lo suggerisce con un tocco rozzo o livido sulle labbra, con un cerchio paonazzo intorno a due occhi febbrili, lo fa tremare in un ricciolo di capelli ribelli su una nuca di donna. E lo fa bene". Con queste poche parole pubblicate ne “La Voce”, del marzo 1909, il grande artista toscano Ardengo Soffici descriveva l’arte di Giovanni Boldini.
Il diritto perfetto - Giovanni Boldini

A Parigi, nei primi del ‘900 pulsa il cuore della Belle Epoque, Giovanni Boldini diventa l’icona di quel mondo che esalta una sensuale femminilità, avvolta in sinuosi chiffon, sete trasparenti e audaci scollature; nessuno come lui sa trasportare sulla tela le immagini e le sensazioni che imboccano già la via della modernità.
Boldini fu il più celebre ritrattista dell’epoca, la sua tecnica pittorica fatta di “sciabolate di colore” era sempre alla ricerca del particolare perfetto, della bellezza sublime, sempre nel vorticare di virtuosismo unico.
Ritrasse nobildonne di mezza Europa, ma ebbe una relazione speciale con Marthe de Florian, raffinata, elegante, dalla ricca vita mondana, diventò la musa prediletta di Boldini.
Marthe viveva in un appartamento nell’ottavo arrondissement di Parigi, sulla rive droite, quartiere della borghesia, dove hanno sede l’Eliseo e il Ministero dell’Interno: ancora oggi non è chiaro a che titolo occupasse l’abitazione, anche se più fonti propendono per un rapporto di locazione, ma è certo ch’ella visse in quella casa sino alla sua morte avvenuta nel 1939. Dopo di lei, vi risiedette il figlio Henri Beaugiron, il quale a sua volta ebbe una figlia, Solange.
Scoppiò la seconda guerra mondiale, le truppe naziste invasero Parigi, il figlio di Madame de Florian con la bambina fu costretto a una fuga repentina: si chiuse alle spalle la porta di quell’appartamento che vide i fasti della Belle Epoque e trovò rifugio nel sud della Francia, senza mai più far ritorno.
Nel 2010 Solange Beaugiron moriva all’età di 91 anni: gli eredi all’atto di riordinare gli effetti personali della nonna, trovarono un contratto in virtù del quale la signora Solange si era impegnata a pagare l’affitto di un appartamento a Parigi, della cui esistenza nessuno di loro aveva contezza.
Sarebbe interessante conoscere gli aspetti legali della vicenda locatizia, in quanto generalmente alla morte del conduttore la locazione viene a cessare, trattandosi di un contratto tipicamente caratterizzato dall’intuitu personae, ovvero quel rapporto negoziale nel quale la considerazione della identità del contraente, o delle sue qualità personali, sono elementi determinanti del consenso di una delle parti.

Il Diritto Perfetto - La Femme en Rouge di Giovanni Boldini

La Femme en Rouge – Giovanni Boldini


È verosimile pensare che il figlio di Madame de Florian, dopo la morte della madre, abbia sottoscritto un nuovo contratto, oppure con il consenso del locatore sia subentrato in quello esistente.
È ipotizzabile, altresì, che il rapporto locatizio – sempre adempiuto dal conduttore con il pagamento dei canoni – si sia rinnovato negli anni e, in seguito alla morte di Henri Beaugiron, la figlia Solange sia subentrata al padre, in forza di una specifica clausola contrattuale, oppure per aver a sua volta sottoscritto un nuovo contratto.
Quello che è certo è che per quasi 70 anni gli eredi di Madame de Florian pagarono l’affitto di quell’appartamento parigino.
I nipoti di Solange – sorpresi dall’inusuale scoperta – contattarono l’esecutore testamentario nominato dalla de cuius: espletate le pratiche di successione, quest’ultimo, insieme ai parenti della defunta e alla polizia giudiziaria, si recò in quella che fu la casa di Madame de Florian.

Il Diritto Perfetto - l'Appartamento di Madame de Florian

L’appartamento di Madame de Florian


La porta venne forzata, i presenti entrarono, rimanendo attoniti e senza parole. Era come se il tempo si fosse fermato a settant’anni prima: tutto era rimasto immobile, persino i belletti e i profumi sparsi alla rinfusa sulla toilette da signora, con un paio di spazzole d’argento. C’erano riviste, un vecchio forno a legna, un pupazzo di Micky Mouse… quando qualcosa di assolutamente meraviglioso si palesò agli occhi dei presenti.
Il ritratto di una bellissima giovane donna, di profilo, i capelli morbidamente raccolti lasciavano cadere alcune ciocche ondulate, al collo delle perle… e quell’abito da sogno in seta rosa, con maniche ricche, che lasciava le scoperte spalle.
Era Marthe de Florian a 24 anni: Giovanni Boldini l’aveva ritratta come solo lui sapeva fare, fissando lo charme di una donna (e quello di un’epoca) sulla tela, regalandole l’immortalità di quel momento di eterea assoluta bellezza.
Il mistero per cui l’appartamento rimase chiuso per settant’anni non è stato chiarito, mentre il dipinto ha sbaragliato tutte le quotazioni dei precedenti Boldini, superando i tre milioni di euro; anche l’abito in seta rosa è stato ritrovato nell’armadio, insieme a diverse lettere ordinatamente raccolte da un nastro: erano quelle che lei e il Maestro Boldini si erano scambiati nel corso degli anni… la storia di un amore, la storia di una Musa. Per sempre.

Per approfondire:

L’arte, la libertà … e il coraggio.

“La bellezza salverà il mondo”: in queste famose parole si condensa lo spirito di colui che dedicò tutto sé stesso per recuperare le migliaia di opere d’arte che i nazisti sfacciatamente trafugarono dal nostro Paese.

Il diritto perfetto - Storia di Ruggero Siviero

Molti cittadini furono disposti a correre rischi e pericoli per salvare i capolavori della nostra storia e a ognuno di essi è rivolta nostra la gratitudine, ma tra tutti spicca il nome di Ruggero Siviero.
Fiorentino, colto e raffinato con una particolare attitudine per le pubbliche relazioni, divenne un impavido agente segreto nella Germania degli anni ’30, osservando e passando informazioni sulle modalità di confisca dei beni agli ebrei.
Nel ’38 iniziò a destare sospetti, per cui venne espulso dal territorio tedesco; poco dopo – forte di quanto appreso sul campo come agente infiltrato – iniziò la sua spericolata attività di protettore e cacciatore di opere d’arte, capeggiando un gruppo di antifascisti dediti anch’essi a contrastare la sottrazione di capolavori inestimabili per mano germanica.
È noto che i nazisti, oltre alle indicibili nefandezze di cui si macchiarono, erano soliti depredare il patrimonio artistico dei vari paesi europei: il Louvre venne svuotato, Olanda e Belgio pagarono un prezzo carissimo e la sorte italiana non fu diversa.
Non si può negare che i teutonici avessero pensato proprio a tutto, arrivando a costituire il “Kunstschutz”, ente diretto dal prof. Alexander Langsdorff – colonnello delle SS – il cui compito ufficiale era quello di proteggere le opere d’arte italiane dai danni che avrebbero provocato gli alleati, mentre in realtà era un sistema “legale” per razziare indiscriminatamente il nostro patrimonio artistico.

Il Diritto Perfetto - Bacco di Michelangelo

Il Bacco di Michelangelo


All’inizio del 1944 si vociferava che Goring avesse messo gli occhi su un meraviglioso dipinto del Beato Angelico – l’Annunciazione – collocato presso il Convento francescano di Montecarlo in San Giovanni Val d’Arno.
Il dipinto fa parte delle tre grandi tavole dell’Annunciazione, ma questa spicca per la magnificenza del colore espressa nella ricchezza della veste rossa e oro dell’Arcangelo Gabriele in contrasto con quella blu della Madonna. Un inarrivabile capolavoro del ‘400 italiano.
Siviero, che conosceva bene la passione per l’arte di Goring – il quale si era personalmente “trattenuto per evidenti ragioni di tutela e protezione” un terzo delle opere prelevate dal Louvre – non perse tempo, riuscendo ad avvisare la Soprintendenza, nonché due frati francescani del convento di Piazza Savonarola a Firenze.
Il dipinto venne immediatamente prelevato, nascosto e salvato dalle grinfie naziste. Grazie al suo intervento la tavola è oggi conservata presso la Chiesa di Santa Maria delle Grazie a San Giovanni Val d’Arno.
In seguito, Siviero fu protagonista di altri innumerevoli avventurosi recuperi, realizzati grazie a un’intensa ed efficacissima attività d’intelligence, unita a una caparbietà fuori dal comune, che comprendeva persino il pedinamento dei camion tedeschi carichi di tesori dal valore inestimabile.
A lui si deve il ritrovamento di capolavori di De Chirico, del Bacco di Michelangelo, del San Giorgio di Donatello, della Madonna del Divino Amore di Raffello, nonché di Hermes di Lisippo, oltre a migliaia di altri tesori impunemente trafugati.
Finita la guerra riuscì a far valere di diritto dell’Italia alle restituzioni come se fosse stato un paese occupato al pari dell’Olanda.

Il Diritto Perfetto: Madonna del Divino Amore di Raffaello

Madonna del Divino Amore di Raffaello


Ma il vero colpo di genio fu un altro, un tocco degno del più fine dei giuristi: Siviero affermò che gli acquisti da parte della Germania di opere d’arte avvenuti prima dello scoppio del conflitto erano invalidi, essendo stati il risultato di pressioni politiche e che, comunque, si trattava alienazioni in violazione delle norme di legge.
Sotto il profilo di diritto non fece altro che denunciare la nullità di quei contratti, poiché stipulati contra legem.
All’epoca l’attuale Codice Civile era già in vigore, risalendo al 1942: la nullità del contratto è disciplinata dagli art. 1418 e ss., dove si specificano con precisione le diverse cause di invalidità, che spaziano dalla mancanza di uno degli elementi essenziali del negozio (consenso, oggetto, causa e forma), all’illiceità di taluni di essi, prevedendo, altresì, una norma di chiusura secondo cui sono nulli tutti i contratti contrari a norme imperative.
Il negozio nullo non produce alcun effetto; in altre parole, è come se non fosse mai stato perfezionato: ne consegue un reciproco obbligo restitutorio in capo alle parti, le quali sono obbligate a rendere quanto ricevuto in esecuzione del rapporto invalido.
Verosimilmente, Siviero ricorse proprio a questa disposizione di generale di contrarietà alla legge per eccepire la nullità – e quindi l’assoluta inefficacia – delle cessioni di opere d’arte effettuate prima dello scoppio della guerra: nonostante le strenue resistenze tedesche, secondo cui tali rapporti esulavano da quanto statuito per le restituzioni post belliche, Siviero ne uscì vittorioso, consentendo il rientro in Italia del Gentiluomo di Memling e del Discobolo di Lancellotti.
Negli anni successivi Siviero continuò per conto dello Stato italiano la sua attività di recupero dei capolavori con clamorosi successi, dando un contributo unico nella storia della tutela del patrimonio artistico del nostro Paese.
Si spense a Firenze nel 1983, ma non senza aver cercato di dare, ancora un volta, il proprio apporto nella ricerca della Natività con i Santi Lorenzo e Francesco di Caravaggio rubata nel 1969 a Palermo e mai più ritrovata… ma questa sarà un’altra storia.

Per approfondire:

“Eroe e spia: lo strano destino di Rodolfo Siviero” di Daniela Cavini in Sette/Redazionale 14, 8/4/2017, pg. 56 e 57

“L’ombra di Caravaggio” di R. Fagiolo – I manuali del Corriere della Sera – L’arte come un romanzo n. 28 ed. Nutrimenti srl 200 ed. RCS MediaGroup Spa 2017

Il furto del secolo… e il delitto imperfetto.

Budapest. Notte tra il 5 e 6 novembre 1983. L’oscurità avvolge Piazza degli Eroi nel cuore della capitale Ungherese dove si erge il Museo delle Belle Arti, con la sua ricchissima collezione donata dai principi Esterhàzy. Nel silenzio gelido tre figure si arrampicano furtive sull’impalcatura dei lavori di restauro installata sul retro del museo.
Il Diritto Perfetto: il furto del secolo

Nonostante le ricchezze ospitate, il sistema d’allarme è fuori uso da tempo. I tre uomini, giunti al secondo piano, forzano senza difficoltà una delle finestre e, in men che non si dica, sono dentro. Si dirigono dritti verso la stanza degli italiani, staccano dal muro sette capolavori: un paio di Tintoretto, un Giorgione, altri due del Tiepolo e per finire due di Raffaello, “Ritratto di Giovane” e l’inestimabile “Madonna Esterhàzy”.
Quest’ultima è un piccolo quadro al quale il giovane Raffello doveva essere particolarmente legato: si pensa fosse una sorta di “diario” per ricordargli di quando lasciò Firenze per Roma, dove scrisse le più belle pagine della storia dell’arte. Nella Città Eterna proseguì il dipinto iniziato in Toscana, lo si deduce dai resti del Foro Romano rappresentati sullo sfondo, ma non lo portò a termine, rimanendo ancora visibile il disegno preparatorio da eliminare con le ultime pennellate di rifinitura.

Il Diritto perfetto - Il Museo di belle arti di Budapest

Il Museo di belle arti di Budapest


Torniamo al nostro furto: dopo appena una ventina di minuti i tre sono già fuori con il ricco bottino, dove due complici ungheresi li attendono a bordo di un’auto con la quale si allontanano indisturbati. Tutto secondo i piani.
Sino alla tarda sera di domenica 6 novembre nessuno si accorge di nulla, poi la notizia si diffonde a gran voce: il fatto è su tutti i notiziari del mondo. Nel frattempo la Polizia ungherese indaga: sul luogo del delitto si rinviene un cacciavite sul quale è impressa la dicitura “USAG”. Indizio o depistaggio? Qualche giorno dopo da un fiume emerge un sacco di iuta, dentro ci sono le cornici dei sette capolavori rubati: all’interno vi è un’etichetta che reca un marchio di fabbricazione, dove si legge “Porto Marghera”, località industriale vicino a Venezia, mentre si accerterà che il cacciavite non è americano, bensì prodotto da un’azienda milanese.

Il Diritto Perfetto - Ritratto di Pietro Brembo

Raffaello Santi – Ritratto di Pietro Bembo


La pista si sposta in Italia: inizia una stretta collaborazione investigativa tra i Carabinieri del Nucleo Tutela dei Patrimonio Artistico e la Polizia ungherese. Un altro particolare balza agli occhi: negli stessi giorni del furto, in Ungheria scompare una ragazza di sedici anni, che parla perfettamente l’italiano. Si segue anche quella pista: poco tempo e la giovane viene rintracciata in ambienti di dubbia fama, messa alle strette confessa quasi subito.
Era stata avvicinata da due italiani, si innamorò di uno di loro e per questo accettò di aiutarli, trovando un paio di complici che avrebbero dovuto fare da palo durante l’operazione. Identificati i due balordi, ben presto vennero acciuffati: in sede di interrogatorio, uno dei due raccontò il piano in ogni dettaglio, comprese le diverse ricognizioni effettuate nei giorni precedenti al furto per capire i tempi del giro delle guardie e per accertare quali fossero le misure di protezione poste a tutela delle opere.
Specificarono che la loro ricompensa per la collaborazione fu il “Ritratto di giovane” di Raffaello, valore 17 miliardi di lire dell’epoca, che pensarono bene di seppellire in un campo poco distante in attesa di tempi migliori per monetizzare. In breve il dipinto venne ritrovato in buone condizioni.
Nel frattempo, in Italia, i Carabinieri proseguono una meticolosa indagine alla vecchia maniera: indizi e riscontri, vagliati senza i grandi supporti tecnologici di oggi, portano in un bar di Reggio Emilia. Vengono identificati due personaggi, tali Ivano Scianti e Graziano Iori, i cui nomi erano già spuntati in altri reati connessi al mondo dell’arte.
Un altro nome emerge dall’indagine: si tratta di un certo Morini, proprietario di una Fiat Ritmo rossa, il quale che da qualche tempo viaggiava con una Citroen a noleggio. Che fine aveva fatto la Ritmo Rossa?
Gli inquirenti incrociano queste informazioni con gli ungheresi i quali, con un certosino lavoro di controllo delle immagini della frontiera, riferiscono che effettivamente una vettura identica a quella indicata aveva varcato il confine poco dopo il furto in direzione della Jugoslavia.
Il Morini venne sottoposto a interrogatorio: consapevole del rischio di finire in un carcere ungherese, iniziò con le prime ammissioni, dichiarando che la Ritmo Rossa si trovava presso un’officina meccanica in Grecia, essendo rimasto in panne durante una vacanza. Gli investigatori ritennero piuttosto strano il mese di novembre per andare in vacanza in Grecia…
Tutte le piste portano al mondo dei trafficanti di opere d’arte: la mente della banda risulta essere Scianti, ma né lui, né Iori risultano reperibili. Viene, quindi, allertata la Polizia greca, la quale accerta che, nei pressi del luogo dove sarebbe stata ricoverata la Ritmo rossa, vive un ricco appassionato di opere d’arte.
Ormai il cerchio si stringe e i quadri diventano difficilmente piazzabili, c’è troppo clamore intorno al caso, il mondo intero attende notizie; il timore è che vengano distrutti.
Invece, si verifica la svolta: una telefonata anonima perviene al capo del Servizio Interpol della Grecia, rivelando il luogo dove si sarebbero potuti ritrovare i sei dipinti rubati. Le Forze dell’Ordine si precipitano sul posto e in una cassa ritrovano le tele: tutte più o meno in buono stato.
C’è anche la Madonna Esterhàzy, forse quella che ha subito il danno maggiore, una crepa longitudinale dovuta al fatto di essere stata piegata, ma nulla di irreparabile. La notizia del ritrovamento fa il giro del mondo, con grandi onori alle Forze dell’Ordine di tutti i paesi coinvolti, evidenziando la grande efficacia della cooperazione investigativa internazionale.
Tralasciando le dimissioni della direttrice del Museo e altri vari strascichi, vi è dire che all’esito della celebrazione dei processi le pene comminate dagli ungheresi furono molto più severe di quelle dei Giudici italiani. I due complici di Budapest vennero condannati rispettivamente a 5 e 11 anni, mentre la ragazza minorenne, dopo il processo d’appello, rimase in libertà con l’obbligo di rigare dritta.
Gli italiani, autori materiali del fatto, furono condannati a pene comprese tra i 4 anni e 9 mesi e i 4 anni e sei mesi.
Il 30 dicembre del 2014, Ivano Scianti rilasciò un’intervista al quotidiano “Gazzetta di Reggio” dove raccontò tutta questa rocambolesca storia, compreso il clamoroso errore del cacciavite che pensavano fosse di fabbricazione americana, lasciato nel tentativo di depistare le indagini verso l’ipotesi del complotto contro un paese comunista, nonché del sacco di iuta con l’etichetta italiana. Tutto venne raccontato… tranne il nome del vero mandante del furto del secolo.

Per approfondire:

“L’ombra di Caravaggio” di R. Fagiolo, ed. speciale del Corriere della Sera n. 28

“Gazzetta di Reggio” di T. Soresina del 31 dicembre 2014

Il fruscio di un attimo fuggente.

Nella prima metà del ‘700 l’arte muta, si fa più viva e dinamica, diventa la rappresentazione di un momento per fissare sulla tela un’emozione, rimanendo sotteso il significato della storia. 
Il diritto perfetto: il fruscio di un attimo fuggente

La decorazione è sempre ricca e opulenta, un tripudio di sete, trine e merletti; dominano le linee morbide e gli arabeschi, i colori si attenuano e largo spazio viene lasciato al rosa e al celeste.
Nella celeberrima opera “I fortunati casi dell’Altalena” – meglio nota come “L’Altalena” – la superba mano di Jean-Honoré Fragonard ha magistralmente evocato lo spirito leggero, la bellezza e l’esaltazione del divertimento tipico di quel tempo. 
Inizialmente il committente, si pensa un nobile francese, si rivolse a Gabriel-Francois Doyen descrivendo con precisione quale doveva essere il contenuto dell’opera; Doyen, specializzato in dipinti religiosi, rifiutò l’incarico e lo passò al collega Fragonard, il quale realizzò quanto richiesto: un religioso spingeva la moglie del nobile sull’altalena, mentre lui nascosto dietro a un cespuglio spiava sotto la gonna della signora.
Il risultato fu un capolavoro di virtuosismo unito a un’evidente sensualità: l’allusivo movimento dell’altalena, la scarpetta che vola via, la gonna alzata dal vento che lascia intravedere le calze candide trattenute da una giarrettiera, mentre lui sdraiato tra i cespugli coglie l’attimo per guardare sotto la veste di lei, tutto sottende un esplicito messaggio erotico. 
Da sempre il sapiente gioco della seduzione passa anche attraverso il visto e non visto e lo sbirciare sotto la gonna delle signore pur essendo prassi antica è ampiamente diffusa ancora oggi. Talvolta può accadere che il sottile limite del corteggiamento e del gioco delle parti venga superato, scivolando in atteggiamenti che possono assumere connotati lesivi dell’immagine, del decoro e della libertà altrui.

Il Diritto Perfetto - Amanti nel Parco

Amanti nel parco – François Boucher

Il travolgente progresso tecnologico ha contribuito a creare dei voyeurs 3.0, i quali non si limitano più all’occhiata indiscreta, ma provvedono a immortalare l’evento a suon di clic di smartphone, o microcamere della più svariata natura e dimensione, con frequente condivisione social dell’ambita immagine-trofeo.
 L’upskirting, ovvero la pratica voyeuristica di scattare foto sotto le gonne delle signore, è in continua espansione, ma risulta difficile da perseguire legalmente, in quanto al momento non esiste una fattispecie di reato entro la quale sussumere tale spregevole condotta, in particolare nei casi in cui l’immagine sia stata “rubata” in un luogo pubblico.

Le cronache raccontano che neppure quando il voyeur 3.0, con più di 5000 immagini in archivio, è stato colto sul fatto (si direbbe in flagranza se ci fosse un reato), si è arrivati a una condanna e il Tribunale di Milano è stato costretto a pronunciare sentenza di assoluzione nei confronti dell’imputato, verosimilmente perché il fatto non costituisce reato.
 I Giudici non hanno avuto scelta: niente norma incriminatrice, niente condanna. Peraltro, va sottolineato come l’upskirting non presenti i connotati della violenza privata, mancando del tutto la coartazione della volontà delle vittime, le quali al momento del fatto erano ignare e inconsapevoli e mai ebbero contezza di essere fotografate; neppure può trovare applicazione la norma sulla molestia, in quanto l’atteggiamento che reca disturbo deve essere percepito dalla persona offesa, cosa che non avviene in siffatte situazioni.
Sotto il profilo civilistico qualsiasi risarcimento è stato escluso, non essendo stato possibile procedere con l’identificazione delle vittime, con conseguente impossibilità di dimostrare l’eventuale danno dalle stesse sofferto. 
L’upskirting non è un gioco di seduzione e neppure un corteggiamento un po’ fuori dagli schemi: si tratta, invece, di un’evidente violazione della dignità e dell’immagine della persona, indipendentemente dal fatto ch’essa ne sia consapevole o meno; per tali ragioni da più parti – anche a livello europeo atteso che il fenomeno è fortemente sentito nel Regno Unito – si chiede un pronto intervento con mano ferma da parte Legislatore… nel frattempo… ragazze usate pure la gonna corta, ma occhio all’occhio indiscreto.

Per approfondire:

www.finestresull’arte.it

Giulia, l’acqua… e il concorso nel delitto quasi perfetto.

Siamo a Palermo, prima metà del ‘600, Giulia Tofana è un’avvenente cortigiana di pagana bellezza, dotata di un’acuta intelligenza e uno spiccato senso per gli affari. L’intraprendente ragazza aveva frequentato per qualche tempo uno speziale e questo le dette la possibilità di disporre del più famoso ed efficace veleno dell’epoca: l’arsenico.
Il diritto perfetto: la storia di Giulia Tofana

Si può dire che Giulia fosse “figlia d’arte”, in quanto sembra che sua madre, o sua nonna, fosse Thofania d’Adamo, giustiziata per aver eliminato il marito “cum venificio propinato”.
Rispetto alla d’Adamo, Giulia aveva raffinato la tecnica di preparazione del veleno: grazie a una particolare procedura di ebollizione dell’anidride arseniosa, era riuscita a ottenere una soluzione altamente tossica a base di sale d’arsenico, la quale si presentava come una semplice acqua, del tutto inodore e insapore, quindi, somministrabile alla vittima designata con estrema facilità.
Dietro alla facciata di cortigiana d’alto bordo e fattucchiera, Giulia aveva avviato una fiorente attività basata sulla produzione e vendita della sua “soluzione”: come una vera donna d’affari, aveva provveduto anche al “packaging” del prodotto, che presentava in fiaschette di vetro di circa mezzo litro, costose ma non economicamente inaccessibili.
Venivano dettagliatamente fornite le corrette istruzioni d’uso: si dovevano somministrare poche gocce al giorno, tempo due settimane il risultato era garantito: la morte veniva scambiata per una forte gastroenterite, malattia all’epoca largamente diffusa, così tutti la facevano franca.
L’acqua Tofana era diventata il rimedio ideale per procedere a un “divorzio” rapido e senza le lungaggini giudiziarie che ben conosciamo, per eliminare le amanti che infestavano la felicità coniugale, oppure per portare a termine piani che prevedevano la morte del malcapitato di turno, come nel caso di successioni ereditarie maturate prima del termine naturale… poco importava che si trattasse di un parente, un fratello o un amico.
Giulia, grazie al suo lavoro, era diventata molto ricca e nessuno sospettava nulla, sino al giorno in cui vendette la sua acqua a un tale di nome Spadafora il quale, invece di seguire le istruzioni d’uso, propinò alla vittima tutto il contenuto della fiaschetta, facendolo morire in tempi brevissimi e con evidenti sintomi di veneficio.
Giulia era ben consapevole che in breve le indagini sarebbero arrivate a lei, per cui decise di lasciare Palermo immediatamente: destinazione Roma.
Dopo diverse traversie, giunse nella Città Eterna dove, in poco tempo e con le conoscenze giuste ottenute grazie alla sua “professione”, riavviò la sua redditizia attività commerciale.
Le sue clienti erano prevalentemente donne che non riuscivano a disfarsi dei mariti, per cui ricorrevano al drastico metodo dell’acqua Tofana: tale pratica delittuosa venne scoperta quando una di loro somministrò il veleno in dosi eccessive. La donna sottoposta a tortura rivelò che il preparato era stato prodotto e venduto da Giulia Tofana.
Fermo restando che all’epoca i Tribunali non andavano tanto per il sottile, anche oggi possiamo sostenere come la posizione della cortigiana fosse difficilmente difendibile dall’accusa di concorso nel reato di omicidio volontario.
Il concorso si perfeziona quando il crimine è il risultato della consapevole partecipazione di ciascun concorrente alla determinazione dell’evento criminoso: in altre parole, ogni soggetto agente deve aver volontariamente fornito il proprio contributo personale alla realizzazione del delitto.
Nel caso di specie, Giulia Tofana è stata una complice dell’autrice materiale del delitto: infatti, se è vero che la sua partecipazione al reato si è limitata alla fornitura del veleno – materialmente somministrato dalla moglie della vittima – è altrettanto pacifico che tale contributo causale si sia rivelato determinante per l’omicidio. Sotto il profilo sanzionatorio tutti i correi soggiacciono alla pena prevista il reato commesso.
Le cronache dell’epoca non raccontano di un processo penale a carico di Giulia Tofana e sembra che la sua morte sia sopravvenuta per cause naturali.
Non morì, invece, il segreto della sua “acqua”, che venne tramandato alla sua figliastra Girolama Spana, la quale continuò e sviluppò l’attività della matrigna insieme ad altre quattro donne. Le cinque “imprenditrici” vennero fermate soltanto dopo diversi anni: il processo destò grande scalpore, il numero dei decessi era da capogiro, pare che le vittime complessive fossero più di 600. Il Tribunale ritenne le cinque avvelenatrici tutte penalmente responsabili dei reati loro ascritti, condannandole alla pena capitale che poco dopo venne eseguita in Campo dei Fiori a Roma.

Per approfondire:

“Veleni Intrighi e Delitti nei secoli” di F. Mari e E. Bertol, ed. Le lettere 2003;
“Diritto Penale – Parte Generale” di F. Fiandaca – E. Musco Sesta edizione ed. Zanichelli 2014

L’arte del Profumo Perfetto.

Che cos’è un profumo? Il profumo è come la musica: contiene tre accordi, ognuno composto da quattro essenze: la testa, il cuore e la base, il tutto per dodici note in totale. L’accordo di testa racchiude la prima impressione dura pochi minuti per lasciare il posto al cuore, il tema dominante del profumo che dura alcune ore… e infine, l’accordo di base, la scia del profumo che rimane impigliata leggera nei ricordi (dal film “Il profumo”, 2006).
Il Diritto Perfetto: Iris nel giardino di Monet

Nulla è evocativo come il profumo e nulla sa dare quel tocco in più allo charme che rende indimenticabili, del resto la corteccia olfattiva nel cervello umano appartiene al rinencefalo, una strutture cerebrali dall’evoluzione più antica e complessa.
Innumerevoli sono le storie legate alle essenze, si sono snodate nel corso della storia e molto spesso sono partite dal nostro paese. Pensiamo che fu Caterina De Medici a introdurre il profumo alla Corte di Francia dopo aver sposato Enrico II: per lei l’Officina Profumo Farmaceutica di Santa Maria Novella a Firenze – tutt’ora esistente e che merita certamente una visita – aveva creato un’acqua a base di agrumi ed essenza di bergamotto; Caterina era talmente legata alla sua fragranza che portò con sé a Parigi anche Renato Bianco suo fidato profumiere il quale, subito ribattezzato René le Florentin, riscosse un enorme successo.
Sempre un italiano fu l’artefice di un altro successo storico: tutto ha inizio in un piccolo paese in provincia di Novara dove Gian Paolo Feminis, venditore ambulante, creò una profumata Acqua Mirabilis che a suo dire era in grado di guarire tutti i mali. Dopo qualche tempo il commerciante si trasferì a Colonia dove continuò la produzione della sua “Acqua” sempre più apprezzata.
Alla sua morte la formula della fragranza, composta dalle essenze di limetta italiana, bergamotto, neroli, arance, limoni e cedro, passò al nipote Giovanni Maria Farina, il quale era già titolare di una boutique di articoli di lusso come sete pregiate, merletti, guanti profumati, spezie e profumi. Nel 1701 l’erede entrò in società con il fratello, la cui dote peculiare era il “naso”.
La svolta arrivò quanto l’antica fragranza venne ribattezzata con un nome che per Farina doveva essere un tributo alla città doveva viveva, un nome che nel tempo è diventato storia: nasceva l’Acqua di Colonia.

Il Diritto Perfetto: acqua di colonia di Giovan Maria Farina

L’Acqua di Colonia di Giovan Maria Farina

Grandi furono le innovazioni apportate da questi italiani nella tecnica di produzione del profumo a partire dalla distillazione, all’uso dell’alcol puro, dai metodi di macerazione ed estrazione delle essenze, alla primissima qualità delle materie prime.
Per garantire l’autenticità del loro prodotto al marchio “Eau de Cologne” sull’etichetta venne aggiunto anche il nome di “Giovanni Maria Farina”; l’Acqua di Colonia di diffuse rapidamente in tutte le Corti d’Europa, arrivando nel tempo anche oltre Oceano, come testimoniano le numerose lettere provenienti da New York ritrovate nell’Archivio di Farina.
Dopo la morte di Giovanni Maria, la fiorente attività fu portata avanti dagli eredi e nei primi anni dell’800 venne fondata una fabbrica anche a Parigi: come spesso accade nelle grandi famiglie di imprenditori, nacquero forti contrasti, i quali nel caso di specie vennero descritti dallo scrittore drammaturgo Honoré de Balzac in uno dei suoi romanzi sulle beghe della borghesia francese.

Il Diritto Perfetto - Eau de Cologne

Pubblicità dell’Eau de Cologne di Jean Marie Farina


Tempo dopo il Farina di Parigi vendette il suo ramo d’azienda a Roger & Gallet, i quali poi promossero una causa contro Wilhem Mulhems per illegittimo sfruttamento del marchio “Farina”: la Roger & Gallet, quale legittima titolare del nome e del marchio, usci vittoriosa dal giudizio, in esito al quale venne imposto a Mulhen il divieto di utilizzare il nome “Farina” per contraddistinguere i propri prodotti, profumi compresi.
Mulhen non si perse d’animo e ribattezzò la sua profumazione, più economica e meno raffinata rispetto all’Eau de Cologne”, con il numero civico della sede della sua azienda: nasceva la “4711”.
Dall’altra parte, l’ascesa del marchio Farina non conosceva limiti, innumerevoli furono i riconoscimenti e i premi, tra cui spicca quello di Azienda fornitrice ufficiale della Regina Vittoria.
L’arrivo della modernità con l’introduzione di procedimenti chimici sempre più raffinati non ha eliso l’allure che permane attorno alla creazione di un profumo: questa rimane una forma d’arte, un’opera dell’ingegno e come tale quando presenti i connotati della creatività e originalità trova tutela nelle norme sul diritto d’autore.
Nell’ambito di una controversia che interessò un famoso marchio francese, il Giudice di primo grado, particolarmente saggio e accorto, ravvisava una similitudine tra la composizione di una fragranza e un’opera musicale: come la partitura musicale creata dal compositore consente la riproduzione dell’opera musicale, così la formula del profumo ne consente la riproduzione. L’eccezione secondo cui nel caso specifico di una fragranza la valutazione sarebbe troppo soggettiva, non esistendo un mezzo preciso attraverso il quale essa possa essere descritta, non ha trovato accoglimento nei giudici francesi i quali hanno sostenuto che la mancanza di una descrizione oggettiva non è un ostacolo all’applicazione della tutela della norme sul diritto d’autore qualora ne ricorrano i presupposti di legge.
Giusta decisione, pienamente condivisile… ma poteva essere diversamente in un paese che ha fatto dello charme e del profumo una delle sue bandiere?

Per approfondire:

accademiadelprofumo.it: Caterina de Medici e L’Acqua di Colonia