Denaro, potere … e la magnificenza dell’arte

Esiste un sottile file rouge che nel tempo lega indissolubilmente denaro e arte.

Il nostro straordinario patrimonio artistico è il risultato del connubio tra diversi fattori: artisti dalle menti e mani sopraffine sono stati capaci di superare la meraviglia della natura, ma tanta genialità ha avuto la possibilità di esprimersi e diffondersi grazie a coloro i quali, per i fini  più diversi, hanno creduto e sostenuto (soprattutto finanziariamente) pittori e scultori divenuti pilastri della storia dell’arte. Senza il contributo di questi mecenati non avremmo Giotto, Leonardo, Raffaello, Michelangelo, Caravaggio,  Bernini e molti, molti altri.

L'immagina raffigura il Salvador Mundi - Leonardo, David - Michelangelo, Fuga in Egitto (dettaglio) Caravaggio, Angelo - Bernini

Salvador Mundi – Leonardo, David – Michelangelo, Fuga in Egitto (dettaglio) – Caravaggio, Angelo – Bernini

La Chiesa in questo percorso è stata di certo la protagonista avendo colto, forse più di chiunque altro, lo stretto legame tra potere e  capacità comunicativa delle immagini, considerato che all’epoca quasi nessuno dei fedeli sapeva leggere. La magnificenza delle chiese e la forza evocativa delle opere realizzate diventavano l’espressione della potenza e bellezza di Dio, diffondendone il culto in Terra con l’effetto di consolidare il già forte potere ecclesiastico.

L'immagina raffigura la Basilica di San Pietro - il Baldacchino del Bernini, Roma

Basilica di San Pietro – il Baldacchino del Bernini, Roma

Ma non vi fu solo la Chiesa. Nel Rinascimento i ricchi mercanti erano divenuti banchieri in grado di finanziare Papi e Sovrani in guerre e lotte di ogni genere; anch’essi avevano compreso come il potere potesse essere rafforzato e ammantato di una luce benevola quando il denaro passava attraverso la bellezza.

L'immagine raffigura unDettaglio della Venere di Botticelli, Galleria degli Uffizi, Firenze

Dettaglio della Venere di Botticelli, Galleria degli Uffizi, Firenze

Fu così che accanto alle proficue attività finanziare dei Medici e degli altri banchieri toscani –  dai Pazzi di Firenze ai Chigi di Siena – fiorirono i collaterali rapporti con il mondo della cultura e dell’arte. Gli artisti, a loro volta, erano perfettamente consapevoli che la “sponsorizzazione” giusta, quella più illustre, poteva valere la loro fortuna.

Nonostante i secoli trascorsi, le cose  non sono molto cambiate: si trattava – e si tratta tutt’oggi –  di una questione d’immagine. La realizzazione di grandi capolavori dava lustro e fama al mecenate e, talvolta, serviva a lavarsi la coscienza di fronte alla collettività e a Dio, qualora la ricchezza provenisse da fonti non sempre lecite, usura in primis.

Interessante è la storia di Agostino Chigi: senese, figlio di banchieri, già nel corso del suo apprendistato con il padre rivelò spiccate doti imprenditoriali, unite a un’educazione raffinata e a un notevole savoir faire nelle relazioni sociali.

L'immagina raffigura il ritratto di Agostino Chigi

Agostino Chigi – Ritratto

L’occasione d’oro gli si presentò quando Alessandro VI Borgia decise di passare la gestione delle finanze pontificie al banco degli Spanocchi, presso i quali il ragazzo lavorava: Agostino riuscì a conquistare la simpatia del pontefice e iniziò a finanziare il figlio Cesare Borgia.

In breve il giovane diventò molto di più del fidato banchiere del Papa: fu abilissimo nell’insinuarsi nelle maglie della gestione del potere, ottenendo importanti incarichi all’interno del Vaticano, tra cui la direzione delle saline e la gestione della dogana. Poco più tardi accettò di finanziare Alessandro VI per cifre consistenti: il mutuo avrebbe dovuto essere restituito in tre anni circa, ma il Papa risultò inadempiente agli obblighi assunti. Pare che il Chigi non abbia promosso alcuna azione di recupero del credito, optando per una diversa strategia di rientro delle somme mutuate.

Con un vero colpo da maestro, riuscì a ottenere dal Papa la concessione dello sfruttamento delle miniere di allume a Tolfa: si tratta di un minerale essenziale nella tintura delle stoffe dell’epoca da esportarsi in tutta Europa. Con questa operazione l’attività imprenditoriale di Agostino prese il volo e diventò uno dei personaggi più ricchi d’Europa.

L'immagine rappresenta leMiniere di allume di Tolfa, Pietro da Cortona

Miniere di allume di Tolfa, Pietro da Cortona

Quanto al debito di Papa Borgia, l’estinzione dell’obbligazione fu frutto di un patto  compensativo tra i rispettivi crediti liquidi ed esigibili: da un lato quanto il banchiere doveva per la concessione di sfruttamento minerario, dall’altro il suo credito per le somme erogate a titolo di mutuo. Tre tranche di compensazione e il rientro fu integrale. Un accordo perfetto.

Lo stretto rapporto con Papa Borgia poteva rivelarsi un ostacolo per gli affari di Chigi quando alla morte di Alessandro VI gli successe Giulio II. Papa della Rovere detestava il predecessore come nessun altro: ricordiamo che rifiutò persino di occupare gli appartamenti papali abitati dal Borgia, poiché ritenuti pregni di peccato e convocò Raffaello affinché provvedesse ad affrescare le sue nuove stanze private cosicché fossero rispecchiate la grandezza e la levatura morale del nuovo pontefice.

L'immagina raffigura la Stanza della Segnatura in Vaticano

Stanza della Segnatura – Raffaello, Vaticano

Anche in questa circostanza Agostino Chigi agì da fine diplomatico: conoscendo le mire espansionistiche di Giulio II, si rese disponibile a far credito al nuovo Papa, il quale accettò senza tante remore l’offerta. Il legame tra i due fu sempre forte e solido tanto è vero che il Papa inquartò lo stemma dei Chigi a quello dei Della Rovere.

Come ogni banchiere che si rispetti, Agostino fu molto attivo anche sul fronte dell’arte: intorno al 1500 acquistò un terreno in Via della Lungara a Roma dove, su progetto dell’architetto toscano Baldassarre Peruzzi, edificò la sua Villa di rappresentanza destinata ad attività culturali e divertimento. L’immobile venne realizzato su due piani e ricorda le ville medicee per bellezza e prestigio.

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Villa Chigi, detta anche la Farnesina, Roma

Villa Chigi doveva essere la celebrazione dei successi professionali di Agostino e un tributo all’amore e ai sentimenti; il banchiere affidò l’appalto per le decorazioni niente meno che al Principe delle Arti: Raffaello. L’urbinate, che non ha mai perso un’occasione per aumentare il proprio prestigio, accettò l’incarico e realizzò lo straordinario  Trionfo di Galatea, dedicato all’amata di Agostino, Francesca Oderaschi non proprio nobili origini poiché precedentemente dedita all’antico mestiere.

L'immagine rappresenta il Trionfo di Galatea - Raffaello, Villa Farnesina, Roma

Trionfo di Galatea – Raffaello, Villa Farnesina, Roma

L’affresco è un inno alla sensualità femminile  e, nonostante fosse un’opera pagana con una protagonista al quanto discinta, il Papa si recò più volte in visita alla Villa tanta era bellezza di quel luogo.

Raffaello disegnò anche i bozzetti della Loggia di Amore e Psiche che venne affrescata dal migliore dei suoi allievi, Giovanni da Udine: l’ingegnosa idea di trasformare il soffitto in un pergolato regala allo spettatore l’illusione di entrare in un parco, mentre la favola della Ninfa Psiche che si innamora del bellissimo Cupido è rappresentata in ogni dettaglio sino al lieto fine.

L'immagina raffigura il soffitto della loggia di Amore e Psiche a Villa Farnesina

Loggia di Amore e Psiche – Villa Farnesina, Roma

Villa Chigi fu un successo, vi si tennero feste e banchetti grandiosi, ma ebbe vita breve: dopo i sette anni di convivenza Agostino e Francesca di sposarono, ma lui morì un anno dopo, lei a qualche mese di distanza e la Villa fu abbandonata sino al 1579 quando venne acquista dalla famiglia Farnese, da qui il nome attuale di Villa Farnesina.

Villa Chigi fu la massima espressione dell’incontro tra due mondi, quello della finanza e quello dell’arte spesso complementari l’uno all’altro.

L'immagina raffigura un Dettaglio Loggia di Amore e Psiche - Villa Farnesina, Roma

Dettaglio Loggia di Amore e Psiche – Villa Farnesina, Roma

Ma vi è di più, la bellezza di questa storia rinascimentale sta nell’incontro di due personalità uniche: Agostino e Raffaello,  giovani, appassionati della vita e, seppur con doti diverse, entrambi fuori dal comune, entrambi geniali; forse per questo riuscirono a comprendersi e completarsi regalandoci un capolavoro che è un inno all’amore e alla più sconsiderata bellezza.

L'immagina raffigura un Dettaglio Loggia di Amore e Psiche - Disegno di Raffaello, Villa Farnesina, Roma

Dettaglio Loggia di Amore e Psiche – Disegno di Raffaello, Villa Farnesina, Roma

 

 

Per approfondire:

U. Santarelli “Mercanti e società tra mercanti”, ed. Giappichielli 1992; C. D’Orazio “Raffaello segreto”, ed. Pickwik 2017; C. D’Orazio “Mercanti di bellezza”, ed. Rai Com SPA – Rai Eri 2017; T. Cartù “Sebastiano del Piombo a Roma 1511 -1547” ed. Federico Motta 2008; www.ilsole24ore.com “Il fiorino motore di bellezza nella Firenze del Rinascimento”, di V. Ronzani 20 settembre 2011.

Arsenico… e il delitto perfetto made in Italy

Per secoli il veneficio è stato il modo per commettere il delitto perfetto: il veleno era semplice da somministrare, non lasciava tracce ed era difficile - se non impossibile - da individuare come causa della morte, l’impunità del colpevole era pressoché garantita.

Per queste sue peculiarità, sin dai tempi dei Romani il veleno era considerato l’arma dei vili: secondo talune fonti, l’imperatore Antonino Pio considerava circostanza aggravante del crimine l’uccisione tramite avvelenamento.

L'immagine rappresenta il ritratto di Lucrezia Borgia

Lucrezia Borgia – Ritratto

Il principe dei veleni è da sempre l’arsenico: questo elemento è spesso associato a Lucrezia Borgia, la quale si dice fosse solita utilizzarlo per la preparazione della “Cantarella”, un composto venefico estremamente efficace, che secondo le cronache la figlia di Papa Borgia utilizzava senza remore a ogni occorrenza.

L'immagina raffigura il ritratto di Caterina de Medici

Caterina de Medici – Ritratto

Anche un’altra celeberrima italiana ne fece un largo e sapiente uso, Caterina de’ Medici regina di Francia. Si narra ch’ella fosse dedita allo studio e alla pratica delle arti chimiche, con una particolare propensione per i veleni: per questo convocò alla corte di Francia – quali esperti in “cosmetici” – due fiorentini, Cosma Ruggeri e Renato Bianchi, noti come speziali, i farmacisti dell’epoca. I due italiani, in realtà, avevano perfezionato particolari metodi di lavorazione dell’arsenico, che si presentava come una sottilissima polvere bianca quasi invisibile, tanto da poter essere somministrata con svariati espedienti e sotto diverse forme.

L'immagina raffigura gli interni del palazzo del Louvre

Palazzo del Louvre, interni – Parigi

I cibi e le bevande erano il sistema prediletto, perché il più semplice e sicuro; peraltro, il sapore del veleno era sempre coperto e mascherato dalle spezie abbondantemente presenti nelle pietanze. Le potenziali vittime, consapevoli dei rischi, erano ricorse ai più vari sistemi di protezione, arrivando a mangiare esclusivamente cibi preparati da loro stessi.

Caterina de’ Medici e suoi collaboratori non si persero d’animo ed escogitarono un altro raffinatissimo sistema di avvelenamento: la “camicia all’italiana”. Si prendeva una camicia e la si cospargeva nella parte bassa con la polvere di arsenico: quando l’indumento veniva a contatto con la pelle il veleno così assorbito iniziava lentamente a produrre i suoi effetti, senza mai alcuna evidente sintomatologia di veneficio, in quanto i progressivi, inesorabili peggioramenti potevano essere facilmente attribuiti ad altre diverse malattie.

L'immagine raffigura James Marsh inventore dell'omonimo test

James Marsh inventore dell’omonimo test

L’uso dell’arsenico si prolungò per diversi secoli, ma se inizialmente era appannaggio di Principi e Reali, con il tempo il suo uso si diffuse anche tra la gente comune, sino ad arrivare al famosissimo caso di Giulia Tofana e la sua “Acqua”. Dal 1836 grazie al “Test di Marsch”, ideato dal chimico inglese James Marsch, sarà possibile accertare la presenza di arsenico nei campioni prelevati dalle vittime.

E’ il primo barlume della moderna tossicologia forense… ma questa è un’altra storia.

 

Per approfondire:

F. Mari e E. Bertol Veleni ed. Le Lettere 2001

Il Cilindro di Ciro… il diritto quasi perfetto

I Diritti umani sono i diritti fondamentali, universali, inviolabili e indisponibili di ogni persona: ne sono espressione il diritto alla vita, alla libertà e all’istruzione, soltanto per citarne alcuni.
L'immagine rappresenta il Cilindro di Ciro

Il 10 dicembre 1948 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò e proclamò la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani: essa venne ufficialmente tradotta in cinque lingue e fu ordinato che fosse diffusa tra i Paesi membri con ogni mezzo a disposizione.

L'immagine raffigura Eleanor Roosvlet con la Dichiarazione dei Diritti Umani - New York 10 dicembre 1948

Eleanor Roosvelt con la Dichiarazione dei Diritti Umani – New York 10 dicembre 1948

Il percorso che ha portato alla Dichiarazione Diritti Umani è stato lungo e tortuoso, viene fatto risalire al Bill of Rights del 1689, cardine del sistema costituzionale britannico,

L'immagine raffigura la Dichiarazione d'indipendenza degli Stati Uniti d'America

Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America

passando per la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti sino la Dichiarazione del Diritti dell’Uomo e del Cittadino esito della rivoluzione francese.

L'immagine raffigura la Dichiarazione d'indipendenza degli Stati Uniti d'America

Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America

In realtà, il primo riconoscimento dei Diritti Umani è molto, molto più antico: ne abbiamo traccia intorno al 539 a. C., quando Ciro il Grande, re di Persia, conquistatore della città di Babilonia, noto come sovrano illuminato e attuatore di una politica libertaria in particolare a favore dei vinti, riconobbe i primi Diritti inviolabili.

L'immagine rappresenta un bassorilevo di Ciro il Grande

Ciro il Grande

Per suo volere venne abolita la schiavitù, concessa la libertà di culto, l’uguaglianza delle razze, il rispetto delle tradizioni e della cultura dei vinti.
Il suo decreto venne inciso in un cilindro di terra cotta, con scrittura cuneiforme in lingua accadica, oggi noto come il “Cilindro di Ciro”.
I precetti di Ciro il Grande sono stati tradotti nelle sei lingue ufficiali delle Nazioni Unite e i primi quattro articoli della Dichiarazione del 1948 riprendono lo spirito e i principi sanciti dalle norme dettate dal grande Condottiero. Oggi il Cilindro di Ciro appartiene alla collezione del British Museum,

L'immagine raffigura il British Museum

British Museum – Londra

ma una copia è conservata nel quartier generale delle Nazioni Unite a New York, nel salone del secondo piano, a ricordare sempre all’umanità come sia stato drammaticamente facile scivolare nei momenti più cupi e gravi della sua Storia ogni qualvolta essa si sia discostata dalle norme fondamentali e inviolabili della persona.

L'immagine raffigura il "Palazzo di Vetro", sede dell'ONU - New York

“Palazzo di Vetro”, sede dell’ONU – New York

Gli eventi hanno crudamente mostrato come lunga, difficile e costosa sia stata la risalita dal baratro, per questo la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo è quanto di più vicino possa esserci al Diritto Perfetto.

 

 

 

 

 

 

Per approfondire:

A. Cavanna “Storia del diritto moderno in Europa” Ed. Giuffrè 1982

Vendetta e giustizia

La vendetta non ha tempo: la riparazione del torto subito tesa a ristabilire la rottura dell’equilibrio per effetto del crimine, nasce con l’uomo ed è strettamente connaturata alla sua natura.

Nella Grecia antica la vendetta privata doveva essere proporzionata all’offesa, in tal modo si dimostrava anche il valore e la superiorità della vittima, la quale riacquistava il prestigio compromesso a causa del torto .

La vendetta non era un tratto peculiare soltanto degli uomini; anche gli Dei dell’Olimpo e gli eroi della mitologia  sapevano essere particolarmente vendicativi; il perdono e la nobiltà d’animo non erano certamente connotati di quelle divinità, dedite prevalentemente a vendette e ripicche consumate in ogni dove.

Si ricorda che  Eros, il Dio dell’Amore, tramò una sottile  vendetta nei confronti di Apollo, il quale l’aveva denigrato per non aver mai compiuto azioni eroiche, essendosi sempre limitato a scoccare frecce d’amore.

Eros Dio dell'Amore

Eros Dio dell’Amore

Per lavare l’offesa Eros centrò il cuore del Dio con uno dei suoi dardi d’oro facendolo perdutamente innamorare della ninfa Dafne; a lei scoccò una freccia di piombo, il cui effetto fu la totale repulsione per il bellissimo Dio del Sole.

Apollo le provò tutte: la inseguì, le elencò suoi poteri, tentò di convincerla in ogni modo, ma non ci fu nulla da fare;  stremata dal serrato corteggiamento di Apollo, la ninfa chiese aiuto al padre: fu così che, nel momento in cui il Dio del Sole la raggiunse, lei si trasformò in un bellissimo albero di alloro, lasciandolo solo con i suoi tormenti d’amore.

L'immagina raffigura un particolare di Apollo e Dafne - Gian Lorenzo Bernini, Galleria Borghese, Roma

Particolare di Apollo e Dafne – Gian Lorenzo Bernini, Galleria Borghese, Roma

Neppure gli eroi omerici potevano vantare condotte nobili e onorevoli. Il Pelide Achille non ci pensò due volte a ritirarsi dalla battaglia contro i troiani, lasciando i compagni in balia del nemico, perché Agamennone aveva liberato Briseide, la schiava di guerra assegnatagli in premio. Soltanto l’ardente desiderio di vendetta, scatenato dalla morte dell’adorato Patroclo per mano di Ettore, lo fece tornare sui suoi passi e la sua furia fu assoluta.

L'immagina raffigura il dipinto L'ira funesta di Achille di Charles Antoine Coypel

L’ira funesta di Achille – Charles Antoine Coypel

Neppure alcuni episodi della Bibbia sono esenti da tratti vendicativi. Giuditta – devota a Dio – non si fece tanti scrupoli con Oloferne: per salvare il suo popolo dall’assedio del re assiro, lei – bellissima e splendidamente abbigliata – si recò insieme alla sua serva presso la tenda di lui, manifestando l’intenzione di tradire la sua gente.

Oloferne – ovviamente – non resistette a cotanta beltà, la invitò prontamente al banchetto e poi a concludere la serata nel suo alloggio. Le cose non andarono come il re aveva immaginato: avendo ecceduto nei brindisi, Oloferne cadde presto in un sonno profondo. L’occasione era perfetta: lei prese rapida la spada e gli tranciò di netto la testa, riponendola in un cesto per le vivande. Poi, fece ritorno vittoriosa dal suo popolo.

L'immagina raffigurala il dipinto Giuditta con la testa di Oloferne di Botticelli, Galleria degli Uffizi, Firenze

Giuditta con la testa di Oloferne – Botticelli, Galleria degli Uffizi, Firenze

Con il tempo e il progredire degli ordinamenti, le vendette private truculente e senza  controllo  furono  sostituite dalle sanzioni comminate dallo Stato.

Una legge risalente agli anni 621- 620 a. C. vietò agli ateniesi la vendetta privata, prevedendo  una pena irrogata dallo Stato: la morte per l’omicidio volontario e l’esilio per quello involontario.

Inizialmente la pena aveva natura retributiva: lo Stato puniva con la sanzione il crimine commesso; in altre parole, veniva inflitto un castigo per il male di cui il soggetto si era reso responsabile.

Ben presto fiorirono le prime idee secondo cui la sanzione dovesse avere anche un effetto deterrente verso il compimento di futuri delitti: Platone sosteneva che la virtù potesse essere insegnata grazie alla pena così da garantire una maggiore sicurezza della collettività, mentre la natura retributiva passava in secondo piano.

Erano i primi barlumi dei caratteri della pena moderna, la quale presenta da un lato elementi di sanzione retributiva irrogata per il danno provocato alla collettività, dall’altro deve avere una finalità rieducativa, essendo tesa a riportare il reo sul giusto binario della legalità.

Per tali ragioni il nostro ordinamento riconosce diversi istituti premianti favore del detenuto,  concessi ben prima della scadenza della pena. E’ comprensibile che le parti offese fatichino  a comprendere tali “premi”, che vengono vissuti con  grande frustrazione, senso di abbandono  e  ingiustizia per l’evidente incertezza dell’entità della condanna.

L'immagina raffigura un particolare della Toga dei Giudici della Corte di Cassazione

Particolare della Toga dei Giudici della Corte di Cassazione

Negli ultimi trent’anni negli Stati Uniti e in Inghilterra sono sorti diversi movimenti a sostegno e tutela dei diritti delle vittime (Victim’s Rights Movements), i quali hanno portato alla presentazione di istanze avanti alla Corte Suprema americana per ottenere l’ammissione nella  “Sentencing phase” (fase di determinazione della pena dopo la condanna) delle testimonianze dei familiari delle parti offese. La finalità di queste richieste è quella di  portare agli occhi della Corte la sofferenza e il patimento subito dalla vittima e dalla sua famiglia per effetto del crimine.

L'immagina raffigura la Corte Suprema degli Stati Uniti d'America a Washington DC

Corte Suprema degli Stati Uniti d’America – Washington DC

I giudici statunitensi non hanno avuto decisioni unanimi sul punto, ma la questione è un’altra: oggi diversi studiosi sostengono che le vittime dovrebbero avere più voce, così da essere aiutate anche psicologicamente a superare il trauma subito.

Anche nel nostro paese da  più parti si auspica una riforma del sistema sanzionatorio: non si chiede di abbandonare il principio della finalità rieducativa della pena, ma che siano introdotti correttivi diretti a  garantire l’effettività della sanzione e la certezza del diritto, quale fondamentale e primaria espressione di civiltà di un moderno ordinamento giuridico.

 

 

 

Per approfondire:

E. Cantarella “Il ritorno della vendetta” ed. Bur 2007; L. Delpino “Diritto Penale – Parte Generali” Ed. Simone 2000

Il falsario che ingannò i nazisti

L’indurre taluno in errore con artifizi e raggiri al fine di trarne un ingiusto profitto, con altrui danno, è il tratto tipico della condotta del truffatore.

La truffa è un reato perseguito da tempo immemore, poiché strettamente legato alla natura umana, non sempre così attenta alla legalità e all’etica quando si parla del proprio tornaconto.
L’inganno è il cuore dei questo delitto, frequentemente perpetrato da soggetti dotati di un’intelligenza fuori dal comune, con spiccati talenti nel rappresentare attraverso credibili argomentazioni il falso per il vero, o nel far apparire ciò che non è.
I falsari di opere d’arte sono certamente tra i più celebri e – forse – tra quelli che destano minor sdegno, affascinando per l’abilità e l’ingegno. Han Van Meegeren, olandese dei primi del ‘900, era molto di più un falsario, era un vero artista con una forte propensione per Veermer, del quale non solo riprodusse alcune tele, ma ne dipinse di nuove attribuendole – con successo – al pittore del ‘600.

L'immagine rappresenta il falsario Han Van Meegern all'opera

Han Van Meegeren all’opera

Egli aveva fatto proprio il tocco e il tratto del fiammingo: utilizzava gli stessi colori, in particolare il blu di lapislazzuli con olio di lillà che stendeva con pennelli dell’epoca su tele originali del 1600. Aggiungendo della polvere riusciva persino a riprodurre la “craquelure”, ovvero quel reticolo di crepe che si forma con il tempo sulla superficie dei dipinti.

L'immagine rappresenta La cena di Emmaus - Falso di Han van Meegeren

La cena di Emmaus – Falso di Han Van Meegeren

I suoi falsi lo resero ricco, ma la beffa più grande fu compiuta ai danni dei nazisti. Nel 1942 si era sparsa la voce del ritrovamento in Olanda di un nuovo Veermer, “Il Cristo e l’adultera”: la notizia raggiunse presto anche alle alte sfere del partito nazista.

L'mmagine rappresenta "Il Cristo e l'adultera" - falso di Han Van Meegeren

Il Cristo e l’adultera – falso di Han Van Meegeren

Hermann Goering, luogotenente di Hitler, appassionato collezionista di arte non perse tempo e per evidenti “ragioni di Stato” si attivò per l’acquisto della tela.

L'immagine è la fotografia del gerarca nazista Hermann Goering

Hermann Goring

Al posto del pagamento del prezzo, i nazisti offrirono agli olandesi la restituzione di duecento opere precedente trafugate dal paese e acquisite al patrimonio tedesco. L’affare andò a buon fine: i nazisti non scoprirono mai di aver acquistato un falso e l’Olanda ritornò in possesso del proprio ingente patrimonio artistico.

Cinque anni più tardi, per una serie di sfortunate circostanze, Van Meegeren venne sottoposto a un processo con l’accusa di collaborazionismo per aver venduto opere d’arte al nemico nel corso della guerra: rischiava l’ergastolo. L’unica linea di difesa efficace contro quella pesantissima imputazione era ammettere la verità: egli stesso confessò alla Corte di aver rifilato ai tedeschi un falso Veermer.

L'immagine riporta un momento del processo di Han van Meegeren

Han Van Meegeren sotto processo

Rivelò di essere in grado di riprodurre perfettamente i capolavori del fiammingo, tanto è vero che molti suoi dipinti erano stati certificati e attribuiti senza dubbio a Veermer. Per l’accusa la confessione non era credibile: l’istruttoria dibattimentale fu molto articolata, vennero effettuate perizie e sentiti esperti senza arrivare ad alcun risultato definitivo: non vi era la certezza che i dipinti sottoposti alle consulenze tecniche fossero effettivamente dei falsi.

L’accusa chiese all’imputato di fornire le prove a sostegno della propria difesa. Per il falsario l’unico modo per dimostrare la veridicità di quanto asserito era riprodurre ancora una volta un’opera del fiammingo.

Il processo appassionò moltissimo l’opinione pubblica, che era schierata compatta con Van Meegreren: il falsario in poco tempo realizzò l’ennesimo capolavoro, mostrando all’accusa e alla Corte tutto il suo genio.

Le cronache raccontano come ancora oggi non si sia certi del fatto che tutte le opere esposte nei più prestigiosi musei del mondo attribuite al pittore Veermer siano davvero opera della sua mano… oppure se siano il lavoro di un genio indiscusso vissuto un paio di secoli dopo.

 

Per approfondire:

(Per approfondire: D. Polifonico tratto da Enciclopedia del Crimine – ©Fratelli Fabbri Editori, 1974)

Celebri evasioni

La Serenissima Repubblica di Venezia cosmopolita e decadente vedeva nel ‘700 il picco del periodo barocco con i suoi fasti, il lusso e le vite leggiadre, dove tutto - o quasi - era permesso.

Era la città nella quale, per gran parte dell’anno, tra le calli si potevano incrociare le maschere avvolte in neri tabarri, cosicché ogni identità rimanesse celata.
L’espressione più pura dello spirito veneziano dell’epoca fu Giacomo Casanova: laureato in legge, non esercitò mai ufficialmente la professione forense, colto e di gran fascino, libero pensatore, fine diplomatico, era celebre anche come scrittore e filosofo dall’eloquio scorrevole e seducente, forse troppo anche per la libertina Serenissima.
Nel luglio del 1755 Casanova fu arrestato, attraversò il Ponte dei Sospiri  e fu incarcerato ai Piombi, le celle poste nel sottotetto di Palazzo Ducale, famose per essere torride d’estate e gelide d’inverno. I veneziani lo sapevano: era difficile sopravvivere ai Piombi.

L'immagine rappresenta la prigione dei Piombi a Venezia

I Piombi, Palazzo Ducale, Venezia

Contrariamente a ogni garanzia a favore dell’indagato  – e spesso senza neppure la celebrazione di un processo – a quei tempi una persona poteva essere detenuta (e talvolta condannata) senza neppure conoscere quali fossero i capi d’imputazione di cui era accusata. Si trattava di un sistema strettamente inquisitorio: il diritto di difesa dell’imputato, al quale oggi è riconosciuta la natura di diritto inviolabile costituzionalmente tutelato, era soltanto un lontano miraggio.
Solo in seguito si apprese che  Casanova era accusato di blasfemia, detenzione di libri proibiti e circonvenzione di nobili anziani; tuttavia, diverse fonti storiche affermano che la vera motivazione dell’incarcerazione afferisse ai rapporti massonici intrattenuti dal veneziano.
Dal canto suo, Casanova riteneva che la libertà personale fosse un bene supremo e come tale anche al di sopra  della legge: di conseguenza, riconosceva a ogni carcerato  – colpevole o meno – il sacrosanto diritto di organizzarsi la fuga dalla prigione. Forte di questa convinzione non si diede per vinto e iniziò subito  ad approntare il suo piano per evadere.

L'immagine rappresenta un dipinto diCanaletto, Venezia Palazzo Ducale, Mesée du Louvre Parigi

Canaletto, Venezia Palazzo Ducale, Mesée du Louvre Parigi

In modo rocambolesco riuscì a procurarsi un ferro acuminato con il quale iniziò a scavare un passaggio: nonostante un primo fallimento, nella notte tra il 31 ottobre e il 1° novembre 1756 Casanova riuscì nell’impresa di fuggire dai Piombi. Passò prima per il sottotetto e poi si calò da una finestra, quando fu notato da una persona che lo scambiò per un magistrato rimasto chiuso nel palazzo. La fortuna fu il suo salvacondotto: il portone di Palazzo Ducale gli venne aperto e lui riacquistò la libertà allontanandosi indisturbato su una gondola.

Si rifugerà in Francia e farà ritorno a Venezia soltanto dopo diciott’anni.
Celeberrime sono le suo Memorie scritte in francese, nelle quali egli racconta le avventure e le cadute di una vita vissuta comunque sempre al vertice.

L'iimagine rappresenta la locandina del film Casanoca del 2005

“Casanova”, film 2005

Per approfondire:

M.Vannucci “Casanova”, Ed. Polistampa  2002

Così vicini eppur così lontani

La notte di Natale dell’anno 800 a Roma Papa Leone III incoronò Carlo Magno imperatore del Sacro Romano Impero: era il barlume della nascita di quell’Europa moderna che vedrà la luce secoli più tardi.

L’impero comprendeva il cuore del continente europeo, dalla Francia alla Germania, dai Paesi Bassi sino a Roma; ne restavano esclusi i regni anglosassoni, la penisola iberica e i paesi scandinavi.

La cartina geografica raffigura l'estensione del Sacro Romano Impero

Il Sacro Romano Impero

Tralasciando gli aspetti strettamente politici e il susseguirsi degli eventi storici successivi alla caduta della stirpe Carolingia, nei secoli non è mutato il tratto culturale comune che predominava nel continente, affondando le sue radici nella gloriosa storia di Roma e della Cristianità a cui,  più tardi, si unirono le tradizione germaniche.

Gli effetti del Sacro Romano Impero e del mito – mai oscurato – della “Roma Eterna”  si riverberarono prepotentemente nel mondo del diritto: i ceti colti di quell’Europa primordiale aspiravano a creare un diritto comune per tutti i popoli dell’Impero.

Nel 1088 la scuola di Bologna, prima tra tutti, diede inizio allo studio scientifico del “Corpus iuris civilis”, la più grande codificazione del diritto romano voluta dall’imperatore Giustiniano, patrimonio universale della scienza giuridica di ogni tempo.

L'immagine raffigura l'imperatore Giustiniano

Imperatore Giustiniano, Ravenna

I giuristi bolognesi ritenevano le norme giustinianee il diritto all’epoca vigente e il loro indefesso lavoro di interpretazione ed elaborazione ne permise la rapida diffusione in tutto l’Occidente europeo.

Pagina del Corpus iuris civilis con le glosse dagli studiosi

Pagina del Corpus iuris civilis con le glosse degli studiosi

Erano gli albori di quelli che, secoli più tardi, sarebbero divenuti gli ordinamenti giuridici di “Civil law” (o di tradizione romanistica), connotati dalle grandi codificazioni iniziate nei primissimi anni del 1800; fu l’effetto dirompente della Rivoluzione francese a dare l’avvio al cambiamento: l’Ancien Régime venne spazzato via insieme ai suoi privilegi di casta e astuzie in danno ai ceti più bassi della popolazione. In Francia nel 1804 entrò in vigore il Code Civil (detto poi Code Napoléon): fu la prima creazione di un diritto per il cittadino, scritto nelle lingua nazionale in modo che fosse chiaro e comprensibile a tutti, senza alcuna distinzione sociale o di ceto.

L'immagina raffigura uno dei Bassorilievi nel Dome des Invalides che ricorda le Code Napoléon, Pari

Dome des Invalides – Bassorilevo che ricorda le Code Napoléon, Parigi

Nasceva il diritto codificato, inteso come quell’insieme di norme generali (si rivolgono a una serie indeterminata di soggetti) e astratte (disciplinano fattispecie ipotetiche) che il giudice è chiamato a interpretare e ad applicare nella decisione del caso concreto. Negli ordinamenti di Civil law il giudice soggiace sempre alla legge.

Particolare bassorilevo Dome des Invalides, Parigi

Particolare bassorilevo Dome des Invalides, Parigi

Dall’altra parte della Manica, nel 1066 con Guglielmo il Conquistatore inizia a formarsi un ordinamento basato sulla Common law: in sostanza, il “Diritto dei giudici”. In questo sistema  il diritto si forma sulla base dei principi giuridici ricavabili dalle sentenze nelle quali vengono enunciati i principi normativi.

I precedenti (Case Law) sono vincolanti per le decisioni dei casi successivi, mentre l’eventuale diversa decisione determina la nascita di un nuovo principio  di diritto da applicarsi alle fattispecie future.

A differenza dei sistemi di tradizione romanistica, negli ordinamenti di Common Law le norme scritte sono davvero marginali. Questo ha portato alla creazione di un diritto estremamente stratificato, in quanto i precedenti risalgono indietro nel tempo immemore con costante continuità. Si dice che non vi sia “Case Book”, o libro di testo per gli studenti di legge, che non inizi con la storia delle Corti inglesi e nel caso dello studio della moderna proprietà immobiliare l’inizio risale addirittura a Guglielmo il Conquistatore indicato come il “Point of departure” (punto di partenza).

Corte Suprema del Regno Unito

Corte Suprema del Regno Unito

Nei paesi anglosassoni il diritto è considerato autonomo rispetto alla Stato e – secondo talune fonti liberali – persino superiore allo Stato stesso e al potere esecutivo, cosicché alla magistratura sia garantita l’assoluta indipendenza.

Nel tempo, l’area dei paesi di Common law si è considerevolmente ampliata: ne fanno parte gli Stati Uniti, gli Stati africani del Commonwelth, la Nuova Zelanda, Israele e molti altri.

Entrambi i sistemi presentano pregi e criticità: gli ordinamenti di Civil law, connotati dalla creazione parlamentare delle leggi scritte, danno maggiori garanzie di certezza del diritto e democraticità. I precetti sono (o meglio dovrebbero essere) facilmente conoscibili e comprensibili dai consociati ai quali direttamente si rivolgono.

D’altro canto, queste le norme  precostituite possono rivelarsi inadeguate per taluni casi specifici e non idonee a recepire nuovi fenomeni, richiedendo l’intervento del Legislatore, spesso non sollecito come dovrebbe essere.

Dall’altra parte, il predominio dei Case law consente un rapido ed efficace adattamento delle norme al caso concreto e specifico, ma la mole esorbitante dei precedenti ne rende molto più complessa la “conoscibilità” da parte del cittadino con scarse garanzie di certezza del diritto.

Nei tempi recenti entrambi gli ordinamenti si stanno evolvendo, anche per effetto delle normative sovranazionali – europee in particolare –  che lentamente hanno introdotto nei sistemi anglosassoni un numero sempre crescente di leggi scritte, mentre nel continente va rafforzandosi sempre più il peso della giurisprudenza delle Corti superiori.

Bandiera Unione Europea

Bandiera Unione Europea

Si consideri che in Italia  la giurisprudenza  della Corte di Cassazione ha introdotto talune importantissime voci di danno: ne sono esempi il danno biologico (lesione psicofisica del soggetto medicalmente accertabile) o il danno esistenziale, frequentemente oggetto di risarcimento nei contenziosi in tema di responsabilità civile.

E il Diritto Perfetto? Solo il tempo avrà la risposta ma, verosimilmente, il miglior sistema giuridico sarà quello che riuscirà a far propri i pregi dell’altro per risolvere le criticità, purché sia sempre teso a garantire la certezza, la trasparenza delle norme giuridiche e il loro rapido adattamento ai nuovi casi e alle nuove realtà.

 

Per approfondire:

A. Cavanna “Storia del diritto moderno in Europa – Le fonti e il pensiero giuridico” Ed. Giuffrè 1982

Un teatro unico al mondo

“Il teatro Olimpico è un teatro d’altri tempi, realizzato in piccole proporzioni e di inarrivabile bellezza”, con queste parole Goethe descriveva il meraviglioso gioiello ideato e disegnato dall’inconfondibile mano di Andrea Palladio.
Immagine del teatro Olimpico a Vicenza

Fu commissionato al celebre architetto dall’Accademia Olimpica, istituzione culturale fondata a Vicenza nel 1555 da nobili, intellettuali e artisti – lo stesso Palladio ne era membro – il cui fine era quello di coltivare e diffondere tutte le arti: dalla musica alle lettere, alla filosofia, senza escludere lo studio della matematica, della medicina e l’esercizio delle armi con maestri di scherma ed equitazione.

Il costo per la realizzazione del teatro fu interamente sostenuto dagli Olimpici: a chi contribuì venne assegnata una delle statue – a sua immagine –  collocate sopra la gradinata; la posizione di ciascuno dipendeva  dall’entità del contributo versato.

L'immagine è la fotografia dell'interno del teatro: la gradinata con il colonnato e le statue

Teatro Olimpico – Colonnato e statue

Per il progetto Palladio s’ispirò dichiaratamente ai teatri romani descritti da Vitruvio, con una cavea gradinata ellittica, circondata da un colonnato con statue sul fregio. Purtroppo l’architetto  non vide mai la realizzazione del suo progetto e l’opera venne portata a compimento dal figlio Silla, che la consegnò all’Accademia nel 1583.

Ritratto di Andrea Palladio

Andrea Palladio

Il maestoso e coreografico proscenio, che riproduce le sette vie di Tebe, fu ideato da Vincenzo Scamozzi per la rappresentazione dell’Edipo Re di Sofocle: l’allestimento fu talmente suggestivo  che divenne parte integrante del teatro e può essere ammirato ancora oggi.

Immagine del proscenio del Teatro Olimpico ideato da Vincenzo Scamozzi

Teatro Olimpico – Proscenio

Ora come allora chi accede all’Olimpico rimane stupito e senza parole per la meraviglia, la sensazione è di varcare una porta e tornare indietro nel tempo in un silenzio quasi surreale.

L’atmosfera è unica, difficilmente descrivibile se non si ha avuto la fortunata occasione di assistere a uno spettacolo o a un concerto. L’acustica è straordinaria: la musica arriva allo spettatore piena e limpida in tutto il suo colore, avvolgendolo completamente, persino il pianissimo – anche di un solo pianoforte – si sente chiaro e morbido,  portando con sé l’intero racconto del compositore.

La bellezza classica di questo teatro lo rese famoso già all’epoca, diventando altresì luogo di rappresentanza per accogliere Papi e imperatori; anche l’attività dell’Accademia continuò nei secoli successivi, sino al famigerato decreto Napoleonico del 25 aprile 1810. Il provvedimento dispose – tra l’altro – la soppressione di quasi tutti gli istituti e le corporazioni comuni, nonché – e soprattutto – delle associazioni ecclesiastiche di qualunque natura. Si salvarono soltanto alcuni enti religiosi, come i vescovati o le collegiate e altri elencati nel decreto.

La manovra era diretta ad appropriarsi subdolamente dei beni e delle ricchezze degli enti soppressi -, quelli religiosi in particolare – che d’amblée passarono in proprietà del Monte Napoleone (istituzione finanziaria preposta alla gestione del debito pubblico del Regno d’Italia). Si salvarono soltanto quei beni che per convenzione dovevano tornare a comuni o privati in caso di soppressione dell’ente.

L’Accademia Olimpica, prima di essere travolta dagli effetti del citato provvedimento, con una mossa astuta e a sorpresa, cedette la titolarità del Teatro Olimpico alla Città di Vicenza, salvandolo così dal trasferimento in mani  – anche solo indirettamente –  francesi, riservandosene l’uso perpetuo.

Ironia della storia: la strada dove sorgeva la sede dell’istituto Monte Napoleone è oggi uno dei luoghi più famosi al mondo per l’eleganza e il glamour: parliamo di  Via Montenapoleone a Milano.

Tornado all’Accademia Olimpica, fu riattivata nel 1843 e riprese la propria attività di diffusione culturale che perdura ancora oggi.

Il genio di Andrea Palladio ha regalato alla Città di Vicenza – e al Veneto – capolavori di  straordinaria bellezza: Goethe abbagliato dalla magnificenza dell’architettura palladiana, nel Diario di Viaggio 1786/1787, scrisse « V’è davvero alcunché di divino nei suoi progetti, né meno della forza del grande poeta, che dalla verità e dalla finzione trae una terza realtà, affascinante nella sua fittizia esistenza. »

Immagine della Rotonda del Palladio

La Rotonda di Andrea Palladio
(Villa Almerico Capra)

Tra le ville venete spicca la famosissima Rotonda (Villa Almerico Capra): l’edificio a pianta quadrata è posto sulla sommità di una dolce collina alle porte di Vicenza. Fu creata come luogo per l’intrattenimento colto ed è celebre per i suoi quattro loggiati uguali dai quali si può godere lo splendido paesaggio dei Colli Berici.

Vita della Rotonda e del giardino

La Rotonda – Il giardino

Grazie al Palladio la Città di Vicenza con il suo teatro-gioiello e le sue ville sono parte della Lista del Patrimonio Mondiale dell’Unesco: l’Organizzazione, facente parte dell’ONU, fu fondata nel 1945, con il proposito di mantenere la pace e il rispetto dei Diritti Umani attraverso la diffusione della cultura e dell’educazione al rispetto e alla conservazione del Patrimonio dell’Umanità.

 

Per approfondire:

www.ilteatrolimpicovicenza.it; www.accademiaolimpica.it/lastoria; www.lombardiabeniculturali.it – fonti documentate – Legislazione Storica; www.istitutoveneto.it; www.unesco.it

Immensamente grandi alla scoperta dell’infinitamente piccolo

C’è stato un momento nel nostro recente passato in cui siamo stati il centro del mondo scientifico, raggiungendo la vetta del progresso: questo fu il risultato del prodigioso lavoro di una manciata di giovanissimi fisici dalle menti e volontà straordinarie.

Talvolta può accadere che le grandi imprese e i grandi successi siano funestati da eventi e decisioni i quali rappresentano la massima espressione dell’ottusità e della stupidità umana, indifferente e cieca al danno irreparabile provocato al proprio Paese.
La storia che ci portò ai vertici dell’eccellenza scientifica la scrissero – in poco più di un decennio (1926-1938) – i ragazzi di Panisperna, capeggiati da Enrico Fermi, fresco di nomina alla cattedra di fisica teorica a Roma e sempre protetti dal Senatore Orso Mario Corbino, loro mentore.
Corbino fu fisico illustre e Direttore dell’Istituto di Fisica di Roma che guidava con spiccata e ferma volontà innovativa: dotato di un’intelligenza rapida e prodigiosa, abbinata a notevoli capacità imprenditoriali, era persona molto gioviale, abilissima a muoversi con diplomazia tra i meandri accademici. Questo gli consentì di avere presso il proprio dipartimento le menti migliori.
Poco dopo l’insediamento Fermi chiamò da Firenze il suo grande amico e compagno d’università Franco Rasetti, particolarmente abile nella parte della fisica sperimentale.
Il progetto sullo studio degli atomi – obiettivo primario di Corbino, Fermi e Rasetti – era estremamente ambizioso e la concorrenza internazionale più che agguerrita (Dirac, Einstein, Curie solo per citarne alcuni), per cui vi era la concreta esigenza di creare un gruppo lavoro e ricerca con studenti brillanti e capaci.
Fu così che entrarono nei laboratori di Via Panisperna Emilio Segré, di famiglia ebraica, detto il Basilisco per il carattere particolarmente fumantino; Ettore Majorana, siciliano, soprannominato il Grande Inquisitore per il carattere introverso e un po’ pessimista. Le sue capacità matematiche e analitiche erano strabilianti: si racconta di una sfida con Fermi per la risoluzione di un’espressione particolarmente complessa che il docente risolse rapidissimo scrivendo i vari passaggi su una lavagna. Contemporaneamente Majorana giunse all’identico risultato, solo che il calcolo l’aveva fatto a mente.
Completavano il gruppo Edoardo Amaldi detto l’Abate, Oscar D’Agostini il Chimico e il più giovane della banda – appena diciottenne – Bruno Pontecorvo, appellato da tutti come il Cucciolo.

L'immagine è la fotografia del gruppo di via Panisperna; ci sono D'Agostino, Segre, Amaldi, Rasetti e Fermi

Da sinistra: Oscar D Agostino, Emilio Segre, Edoardo Amaldi, Franco Rasetti ed Enrico Fermi.

Con i mezzi e le attrezzature messi loro a disposizione da Corbino, gli esperimenti e progressi si susseguivano senza tregua: le cronache raccontano di un ambiente fervente di idee e ricco di entusiasmo, dove il contributo di ognuno era parte di un tutto per arrivare alla grande scoperta.
La svolta avvenne in un pomeriggio del 1934, quando il gruppo guidato da Fermi sperimentò il bombardamento di una lastra di paraffina (materiale contenente idrogeno) con neutroni (particelle prive di carica): il risultato li lasciò attoniti e increduli, avevano provocato la prima fissione nucleare della storia. Era stata scoperta la possibilità di produrre radioattività artificiale. Verosimilmente, nessuno di loro colse subito l’enorme portata del risultato raggiunto, il quale sarà il punto di partenza della radiomedicina e – purtroppo – della creazione della bomba atomica.
Corbino, orgoglioso dei traguardi raggiunti dai suoi ragazzi e nonostante le resistenze di Fermi, rese pubblici i risultati ottenuti in occasione di un incontro all’Accademia dei Lincei alla presenza del Re Vittorio Emanuele III. In pochi mesi l’effetto della scoperta, ormai sotto gli occhi anche della comunità scientifica internazionale, catapultò il piccolo laboratorio di Via Panisperna in testa tra i centri di fisica nucleare più avanzati al mondo.
Il tempo passa e le cose cambiano: la guerra incombe e nel 1937 improvvisamente muore Orso Mario Corbino. Il gruppo perde il suo punto di riferimento, il suo mentore, colui che li ha sempre protetti e garantito i mezzi per la ricerca. Nulla sarà più come prima.
E’ l’inizio della fine dell’avventura; il punto di non ritorno va fissato ai primi di settembre del 1938, quando vennero promulgate le famigerate leggi razziali che, sull’assunto dell’esistenza di una pura “razza italiana”, introducevano una serie misure dirette – secondo l’ideologia fascista – alla conservazione di tale razza.

L'immagine è la fotografia della testata del Corriere della Sera del 1938

Testata del Corriere 11 novembre 1938

Sono passati ottant’anni da quegli aberranti provvedimenti antisemiti, che vietarono agli ebrei – tra l’altro – l’esercizio delle professioni, del commercio, di possedere terreni e di lavorare nella pubblica amministrazione. Venne loro impedito di insegnare nelle scuole statali o parastatali di qualsiasi ordine e grado e chi svolgeva tali attività dovette abbandonarle. Molti furono costretti a lasciare il paese, furono vietati anche i matrimoni misti, mentre in caso di convivenza more uxorio si rischiavano sino a cinque anni di carcere.

Fotografia del manifesto del razzismo italiano

Manifesto del Razzismo Italiano

Erano gli albori di quell’incubo che attraversò l’Europa lasciando orrore e cicatrici indelebili che neppure il tempo ha potuto attenuare e – forse – è meglio così… a futura memoria dell’oblio in cui può cadere l’umanità.
Nello stesso anno Fermi vinse il premio Nobel per la fisica: il riconoscimento andava a tutto il gruppo di lavoro per l’impegno e l’indefessa dedizione al progetto. Al prestigioso evento il regime dette scarsissimo rilevo, in ragione del fatto che Fermi non era un “puro”, in quanto la moglie aveva origini ebraiche.

L'immagine è la fotografia della consegna del Premio Nobel a Fermi nel 1938

Enrico Fermi ritira il Premio Nobel, 1938

Quanto agli altri, Segrè lasciò il paese per sfuggire ai nazisti e nel 1959 ricevette anch’egli il premio Nobel per la fisica, Rasetti rientrò a Firenze e poi si trasferì in Canada, Pontecorvo proseguì l’attività di ricerca in Russia, mentre Ettore Majorana scomparve la sera del 25 marzo 1938 senza lasciare alcuna traccia. Il mistero della sua fine risulta ancora oggi irrisolto.
Le nefande leggi razziali vennero abrogate nel 1944. La Costituzione entrata in vigore nel 1948, per scongiurare il ripetersi di quanto accaduto e nel contempo tutelare l’individuo in quanto tale, ha conferito rilevo costituzionale ai diritti inviolabili dell’uomo (art. 2) – tra cui spiccano il diritto alla vita, all’integrità personale e alla libertà di pensiero – e sancito il principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge (art. 3) senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche e condizioni personali. Secondo talune fonti, l’inserimento del termine “razza” nella norma in questione fu oggetto di numerosi confronti tra i Padri Costituenti: alla fine si optò per l’attuale formulazione per non dimenticare le leggi razziali e lo scempio dell’umanità perpetrato dal nazifascismo.

Da qui il gruppo si disperse e, nonostante l’amicizia che li legava, tutti abbandonarono Via Panisperna. Fermi partì con la famiglia per Stoccolma dove ritirò il Nobel indossando un elegante frac anziché la camicia nera; s’inchinò al cospetto del Re di Svezia, gli strinse la mano senza fare il saluto romano. Non rientrò in Italia e si trasferì negli Stati Uniti.
Quanto agli altri, Segrè lasciò il paese per sfuggire ai nazisti e nel 1959 ricevette anch’egli il premio Nobel per la fisica, Rasetti rientrò a Firenze e poi si trasferì in Canada, Pontecorvo proseguì l’attività di ricerca in Russia, mentre Ettore Majorana scomparve la sera del 25 marzo 1938 senza lasciare alcuna traccia. Il mistero della sua fine risulta ancora oggi irrisolto.
Le nefande leggi razziali vennero abrogate nel 1944. La Costituzione entrata in vigore nel 1948, per scongiurare il ripetersi di quanto accaduto e nel contempo tutelare l’individuo in quanto tale, ha conferito rilevo costituzionale ai diritti inviolabili dell’uomo (art. 2) – tra cui spiccano il diritto alla vita, all’integrità personale e alla libertà di pensiero – e sancito il principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge (art. 3) senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche e condizioni personali. Secondo talune fonti, l’inserimento del termine “razza” nella norma in questione fu oggetto di numerosi confronti tra i Padri Costituenti: alla fine si optò per l’attuale formulazione per non dimenticare le leggi razziali e lo scempio dell’umanità perpetrato dal nazifascismo.

Per approfondire:

(Bibliografia: G. Colangelo e M. Temporelli “La banda di via Panisperna” – Microscopi –ed. Hoepli 2015; L. Paladin “Diritto Costituzionale” ed. Cedam 1991; Sitorgrafia: fisicisenzapalestra.com “Quei ragazzi di via Panisperna: quando il “Papa” ebbe l’idea di usare i neutroni lenti” di Matteo Barbetti; corriere.it “Extra per voi” Lo Scaffale della storia: “Il fascismo e gli ebrei: così nel 1938 le e leggi razziali arrivarono anche in Italia” D. Messina; lacostituzione.info “La parola “razza” e le Costituzione” di G. De Michele)

La Calunnia è un venticello…

“La calunnia è un venticello, un'auretta assai gentile che insensibile, sottile, leggermente, dolcemente incomincia a sussurrar…”: si apre così la celebre aria di Don Basilio nel Barbiere di Rossini, che continua in un crescendo inesorabile che avvolge e travolge la vittima.

La falsa attribuzione avanti all’Autorità di una condotta delittuosa è pratica antica come il mondo e sostanzialmente i connotati di questo odioso reato nel tempo non sono mutati più di tanto.
Ne abbiamo traccia già nel IV secolo a. C.: ne fu vittima Apelle di Efeso, il più noto pittore dell’epoca; il fatto è precisamente narrato dal sofista greco Luciano nel suo trattato “Non bisogna prestar fede alla calunnia “: si racconta come il pittore Antifilo – rivale di Apelle – avesse riferito a re Tolomeo che la rivolta di Tiro sarebbe stata suggerita da Apelle stesso, il quale nel corso di un banchetto avrebbe dato tutte istruzioni del caso a Teodoto governatore della Frigia.
Re Tolomeo, appresa l’accusa di cospirazione in capo al suo artista di punta, al quale aveva concesso innumerevoli benefici, non avviò alcuna istruttoria, né richiese di quali prove l’accusatore potesse disporre: si scagliò contro Apelle, apostrofandolo duramente e condannandolo a morte per decapitazione.
Soltanto un compagno di prigionia dell’artista, colpito dalla sfrontatezza di Antifilo, ebbe pietà di Apelle e testimoniò la verità di fronte al Re Tolomeo, riferendo che il pittore mai si era recato a Tiro: egli era innocente e del tutto estraneo ai fatti contestati.
Il re Tolomeo tornò sui suoi passi e per riparare all’incauto giudizio diede cento talenti ad Apelle, consegnandogli Antifilo come schiavo.
Apelle, a futura memoria, dipinse un quadro nel quale era illustrata la sua vicenda: l’opera fu dettagliatamente descritta da Luciano ed era nota agli artisti del rinascimento.

L'immagine rappresenta la Calunnia del pittore Apelle

F. Zuccari “La calunnia di Apelle” – Disegno

Nel 1494 Botticelli, in una celebre e straordinaria allegoria, rappresentò la calunnia in danno di Apelle, l’opera è oggi custodita alla Galleria degli Uffizi. Gli elementi del reato vi sono tutti: la Calunnia che trascina la vittima davanti al re, porgendogli una fiaccola senza luce, in quanto fonte di una falsa conoscenza.
L’Ignoranza e il Sospetto sussurrano alle orecchie d’asino del Re, così rappresentato come pessimo giudice.
Attrae l’attenzione una cupa figura nera incappucciata: è il Rimorso, o pentimento, che consegue all’accertamento della calunnia, mentre guarda sottecchi la statuaria e luminosa Verità.
Sono presenti anche l’Invidia e la Falsità che ancora oggi giocano un ruolo spesso determinante per la commissione di questo delitto. Tuttavia, l’elemento essenziale e dirimente è rappresentato dalla coscienza e volontà della falsa accusa mossa nei confronti della vittima avanti all’Autorità: il reo deve essere sempre consapevole dell’innocenza del calunniato.

Il particolare disvalore sociale della calunnia è ravvisabile nel fatto che il pentimento e il risarcimento monetario quasi mai elidono il danno provocato alla reputazione. Rimarrà difficile arginare il sospetto sotteso, il velato dileggio e quella chiacchiera che aleggerà ancora: al tempo e all’oblio la soluzione naturale.

Per approfondire:

G. Fiandaca E. Musco “Diritto Penale – parte speciale” Vol. II, tomo primo, I delitti contro la persona, ed. Zanichelli 2010