Rivalità, sgambetti e dispetti

Michelangelo e Raffaello non potevano essere più diversi: dispotico, irruento e molto poco diplomatico il primo, giovane, affascinante e talentoso il secondo.

Ambiziosi e consapevoli ognuno del valore dell’altro, si rispettavano, anche se la competizione per la ricerca della gloria personale divenne presto una spiccata  rivalità che talvolta sconfinava nell’invidia.

Il Buonarroti era un genio solitario a tratti indomabile: Giulio II ne comprese subito la grandezza, anche se le cronache raccontano di furibondi litigi tra i due; al fiorentino vennero perdonate intemperanze e l’insofferenza mai celata all’autorità; rivendicò sempre  l’assoluta autonomia decisionale nell’esecuzione delle opere e fu gelosissimo delle sue tecniche di lavoro, tanto da  vietare categoricamente l’ingresso nella Sistina durante la realizzazione degli affreschi della volta.

Volta Cappella Sistina, Michelangelo

Di tutt’altra natura fu il rapporto tra Giulio II e Raffaello: il ventenne conquistò subito le simpatie del Pontefice, non solo per i suoi modi affabili e disponibili, ma soprattutto per la grande intelligenza; l’urbinate,  infatti, non esitava a coinvolgere nel suo lavoro i propri allievi: in breve tempo creò una fiorente e produttiva Bottega, grazie alla quale era in grado di accettare le numerose commissioni di grande prestigio che gli erano proposte, portandole a termine nei tempi convenuti, con grande soddisfazione dei committenti che ne elogiavano la maestria.

Ritratto di Giulio II, Raffaello

Nello periodo in cui il Pontefice incaricò Raffaello di affrescare le Stanze della Segnatura, poco più in là un solitario Michelangelo stava compiendo un lavoro immane: l’ammirazione del giovane artista per il Maestro Buonarroti risaliva al suo soggiorno fiorentino, durante il quale era rimasto colpito e affascinato dai lavori del Buonarroti: aveva studiato a lungo il David, per carpirne i segreti nascosti dietro alla potente ma allo stesso tempo elegante fisicità.

L'immagina raffigura la Stanza della Segnatura in Vaticano

Stanza della Segnatura, Raffaello, Vaticano

Si racconta che Raffaello non resistette alla tentazione e, in un momento di assenza del Maestro, di nascosto sbirciò dentro la Sistina, rimanendo attonito per lo stupore e la meraviglia delle scene illustrate nella volta,  non capacitandosi di come un uomo solo potesse essere in grado di realizzare un’opera così maestosa; Michelangelo, ovviamente,  si irritò moltissimo quando apprese che l’urbinate aveva spiato il suo lavoro, indifferente all’ammirazione suscitata nel giovane.

Raffaello colpito dalla grandezza del Maestro fiorentino, decise di dedicargli un tributo nella Scuola di Atene, il suo affresco più celebre, raffigurandolo in primo piano nella veste di Eraclito, imbronciato, chino e pensieroso. Alcuni studiosi ritengono che il modo in cui Michelangelo è stato raffigurato, con abbigliamento da lavoro ed estraneo rispetto al contesto che lo circonda, sia stata in realtà una presa in giro diretta a enfatizzare il carattere poco socievole del Buonarroti.

Il Diritto Perfetto - La Scuola di Atene

Scuola di Atene, Raffaello, Stanza della Segnatura

 

Michelangelo dal canto suo, era consapevole dello straordinario talento di Raffaello e segretamente ne ammirava il lavoro. Quando venne a conoscenza dell’appalto conferito al giovane collega da Agostino Chigi, banchiere e mecenate dell’epoca, per la realizzazione degli affreschi della faraonica Villa Chigi – oggi Villa Farnesina –  in un momento di assenza dell’artista, si recò a vedere come procedevano i lavori.

Sala di Amore e Psiche, Villa Farnesina, Roma

La leggenda narra che Michelangelo rimase sorpreso dalla bellezza e sensualità del Trionfo di Galatea: decise, quindi, di testimoniare il proprio passaggio, disegnando a carboncino in una delle nicchie della sala del banchetto intitolata ad Amore e Psiche una gigantesca testa raffigurante un giovane.

Quando Raffaello se ne accorse si arrabbiò moltissimo, geloso com’era della segretezza dei suoi lavori in corso d’opera, ma decise di non cancellarla in segno di rispetto al grande Maestro.

Testa di giovane realizzata da Michelangelo, Villa Farnesina, Roma

La mano di Michelangelo sembra abbia aiutato anche l’amico Sebastiano Del Piombo, impegnato nel dipingere Polifemo che insegue Galatea: anche Del Piombo soffriva la grande bravura di Raffaello e non voleva in alcun modo sfigurare al suo confronto, per cui chiese all’amico Michelangelo di disegnare il corpo della creatura, poi lui avrebbe colorato la figura. Effettivamente, guardando il corpulento Ciclope sembra di scorgere la tipica fisicità michelangiolesca.

Polifemo, Sebastiano Del Piombo e il Trionfo di Galatea di Raffaello

Purtroppo, la proficua competitività tra i due non durò molto a causa della prematura scomparsa di Raffaello a soli trentasei anni: appresa la notizia della morte del giovane, Michelangelo si propose a Papa Leone X per ultimare le stanze del Vaticano, adducendo che il lavoro fosse troppo importante  per essere lasciato nelle mani degli allievi di bottega.

Il Pontefice rifiutò la proposta, evidenziando come Raffaello avesse istruito alla perfezione i suoi collaboratori, i quali furono assolutamente in grado di ultimare il lavoro del loro Maestro, consegnandolo all’immortalità.

Dettaglio Sala di Amore e Psiche, Raffaello, Villa Farnesina

 

Per approfondire:

“Raffaello una vita felice” di Antonio Forcellino, Editori Laterza

https://www.ildirittoperfetto.it/denaro-potere-e-la-magnificenza-dellarte/

https://www.ildirittoperfetto.it/la-potenza-dellimmagine-tra-appalti-e-subappalti/

Tintoretto, una vita per Venezia

“Stravagante, capriccioso, presto e risoluto et il più terribile cervello che abbia mai avuto la pittura” con queste parole il Vasari descrive il carattere di Jacopo Robusti, in arte Tintoretto.

Tintoretto fu un precursore dei tempi, sfrontato e opportunista, costruì con fatica e ostinazione la propria carriera sino alle vette della grandezza. Tintoretto non si formò presso la Bottega di un Maestro, com’era d’uso avvenisse all’epoca. Sembra che Tiziano, pochi giorni  dopo aver accolto il giovane allievo ne avesse intuito l’evidente talento e, temendo la futura concorrenza, lo cacciò, per poi osteggiarlo con fermezza per il resto della carriera.

Cristo tra i Dottori, Tintoretto Samuel H. Kress Collection

La genialità e determinazione di Tintoretto si coglie anche dal fatto ch’egli fu un autodidatta e mai ebbe un mecenate: poteva contare solo su sé stesso. Imparò autonomamente a padroneggiare tutte tecniche pittoriche in uso nella Venezia di allora, realizzando  opere innovative e maestose, con un’organizzazione degli spazi e del movimento della scena che le rendeva spiccatamente teatrali e di grande impatto.

L'immagine raffigura il Paradiso di Tintoretto

Il Paradiso, Tintoretto, Palazzo Ducale, Venezia

Tintoretto era un ribelle, insofferente alle regole del mercato e della professione: nella realizzazione di un dipinto era molto veloce e  pur di aggiudicarsi una commissione abbassava il prezzo sino a renderlo irrisorio oppure lavorava gratuitamente. Questo suo modo di agire fu censurato da Paolo Veronese, più giovane di una decina d’anni, il quale approdò a Venezia quando il Maestro era nel pieno fulgore del successo artistico.

I due non potevano essere più diversi: il Veronese elegante, raffinato, colto, realizzava capolavori di perfezione ed era solito usare colori luminosi, dagli azzurri al verde lime, divenuti nel tempo il suo tratto distintivo.

L'immagine raffigura le Nozze di Cana di Paolo Veronese

Le nozze di Cana di Paolo Veronese

All’opposto Tintoretto era carismatico, capriccioso e testardo, i suoi lavori  intensi, drammatici e dai colori più cupi: fu, infatti, il primo a preparare il fondo della tela con un colore scuro da cui poteva estrarre la luce, giocando al meglio con la tecnica del chiaro-scuro che fu di fondamentale importanza nel corso della sua lunga carriera.

L'immagine raffigura le Nozze di Cana di Tintoretto

Le nozze di Cana, Tintoretto

Veronese e Tintoretto si studiavano e rispettavano, la loro era una rivalità strettamente professionale: tuttavia, possiamo immaginare che il rapporto sia divenuto più difficile dopo i fatti della Scuola di San Rocco, quando gli organi direttivi decisero di decorare il soffitto, partendo dal tondo centrale.

Venne bandito un concorso tra i migliori artisti di Venezia:  Giuseppe Salviati, Federico Zuccari, Paolo Veronese e, naturalmente, Tintoretto, i quali, entro un mese, avrebbero dovuto presentare alla Scuola i loro disegni.  Vasari racconta l’accaduto con accuratezza: mentre gli altri erano diligentemente occupati con i loro disegni, Tintoretto prese la misura della tela e grazie alla sua connaturata velocità dipinse direttamente l’opera finale, che consegnò entro il termine previsto.

Possiamo immaginare le vibranti proteste degli altri partecipanti, i quali denunciarono che era stato richiesto un disegno non un dipinto; Tintoretto non si scompose e rispose che lui sapeva disegnare solo così, anche perché in questo modo il committente avrebbe avuto piena contezza del lavoro e non ci sarebbe stato nessun dubbio sulla sua esattezza. Precisò, altresì, che se la Scuola non avesse voluto pagarlo, lui gliene faceva dono. L’opera è ancora là.

L'immagine raffigura il tondo San Rocco in Gloria di Tintoretto

San Rocco in gloria, Tintoretto, Scuola Grande di San Rocco

I metodi concorrenziali al ribasso, se non sottocosto, di Tintoretto, sono in uso ancora oggi; purtroppo, il tempo ha dimostrato che tale pratica può essere foriera di evidenti disparità. Ai giorni nostri, soltanto chi gode in una notevole forza economica, unitamente a una solida struttura aziendale, può permettersi di operare stabilmente nel mercato al minor prezzo, riuscendo così a trarre profitto dal conseguente ampio giro d’affari. Al contrario, per i soggetti più piccoli, sia che esercitino  un’attività d’impresa o una professione, l’insostenibilità del compenso al ribasso per ragioni concorrenziali può portare effetti rovinosi.

La profonda crisi che negli ultimi anni ha seriamente compromesso le libere  professioni è stata indubbiamente acuita dal famigerato decreto delle Bersani con cui, tra il 2006 e il 2012 per adeguarsi ai principi comunitari, è stato smantellato il decennale il sistema delle tariffe in uso ai professionisti. Il modello tariffario prevedeva la determinazione del compenso tra un importo minimo e uno massimo da quantificare in rapporto al valore e alla difficoltà del caso. Secondo le nuove disposizioni, invece, il compenso dove risultare dall’accordo negoziale preventivo tra cliente e avvocato, o altro professionista che dir si voglia.

Non è servito troppo tempo per trovarsi di fronte a un tracollo pressoché generalizzato, a tutto vantaggio dei contraenti più forti (banche in primis), i quali hanno immediatamente approfittato della possibilità di imporre ai legali compensi irrisori, indifferenti al  valore, natura e difficoltà della pratiche gestite. Per queste ragioni nel 2017 vi è stato un cambio di rotta che ha portato all’introduzione del principio dell’equo compenso per gli avvocati, quanto meno con riferimento ai contraenti più forti, stabilendo come limite minimo gli importi fissati dalle apposite tabelle ministeriali.

E’ interessante lo spunto normativo che ha portato a tale decisione, la quale si fonda sul disposto dell’art. 36 della Costituzione, secondo cui il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del lavoro prestato: tale il principio cardine è stato – finalmente – esteso a tutti i lavoratori, compresi i liberi professionisti, superando la vecchia concezione che ne limitava l’applicazione ai soli lavoratori subordinati.

Annunciazione, Tintoretto

Per approfondire:

Tintoretto un ribelle a Venezia” scritto da Melania G. Mazzucco per Nexo Digital, Sky Arte

“Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti” Giorgio  Vasari, Newton Compton Editori ed. 2018

www.diritto.it tratto da “I nuovi parametri forensi dopo il D. M. 37/2018 di A. Giurdanella e M. Antoci, Maggioli Editore 2018

Caravaggio, l’arte immortale e le obbligazioni naturali

“Maledetti, trafitti dalla passione, l’amore ci sopravvive l’arte ci rende immortali”, in questo pensiero di Goethe c’è molto di Caravaggio: nessuno come lui ha cercato e ottenuto l’immortalità attraverso la sua arte, nessuno come lui ha saputo estrarre la luce dall'oscurità.

Michelangelo Merisi amatissimo e controverso, noto per il carattere irruento e irrequieto, rappresenta il punto di rottura della Storia dell’arte: le sue opere,  forti e innovative, per la prima volta rappresentavano la realtà delle strade di Roma, momenti di vita quotidiana, talvolta, oltre i limiti della moralità e della legalità.

L'immagine raffigura la Buona Ventura di Caravaggio

La Buona Ventura, Caravaggio

All’epoca il gioco delle carte era pratica abituale e numerosi erano i processi contro i bari professionisti che, grazie ai loro trucchi, riuscivano a scucire agli ignari malcapitati diversi denari. Nel celebre dipinto “I bari” il fatto  viene magistralmente rappresentato da Caravaggio: si raffigura in ogni dettaglio l’imbroglio messo in atto dai due loschi figuri a danno del bel giovane con l’abito più scuro.

L'immagine raffigura un dettaglio de I Bari di Caravaggio

I Bari, dettaglio, Caravaggio

Il raggiro viene compiuto grazie alle carte nascoste dietro alla schiena del giocatore con la piuma consunta, mentre il complice sbirciando le carte della vittima suggerisce quale giocare.

I Bari, dettaglio, Caravaggio

Se da un lato si può sostenere che il quadro evidenzi la condotta truffaldina,  dall’altro denuncia il vizio del gioco come un malcostume largamente diffuso ancora oggi.

Nell’attuale ordinamento il debito di gioco, inteso quale somma di denaro dovuta da un partecipante a un altro in base all’esito del gioco stesso, rientra tra le cosiddette obbligazioni naturali.

Le legge qualifica le obbligazioni naturali  come quelle prestazioni  non giuridicamente vincolanti, ma dovute per ragioni morali o sociali:  in altre parole, nessun creditore di un debito di gioco potrà mai rivolgersi a un giudice per ottenere la condanna del debitore; tuttavia se  quest’ultimo provvede spontaneamente all’adempimento non può pretendere poi la restituzione di quanto versato.

Specifichiamo che per dovere morale s’intende un obbligo di carattere etico, che vincola il soggetto a livello personale, mentre il dovere sociale è il dovere sentito come tale dalla collettività.

Requisito essenziale è che il debitore nel momento in cui paga il debito di gioco sia capace d’intendere e volere e non sia sottoposto a misure restrittive della capacità d’agire.

Attualmente è frequente che i soggetti affetti da ludopatia – il vizio del gioco riconosciuto a seguito di accertamento medico legale – siano sottoposti ad Amministrazione di Sostegno, la quale consiste nella nomina di un soggetto amministratore che affianchi e/o sostituisca la persona dipendente  dal vizio del gioco nel compimento degli atti giuridici che il Giudice indicherà. Trattasi di una misura di protezione del soggetto e del suo patrimonio perfettamente adattabile alle diverse necessità che si presentano caso per caso; essa non è mai definitiva, potendo essere revocata nel momento in cui risulterà che la persona abbia superato la ludopatia grazie a idonei percorsi di terapia e recupero.

L'immagine raffigura I bari di Gherardo delle notti

I Bari di Gerardo delle Notti

Vi da dire, infine, che nel caso in cui si tratti di gioco d’azzardo, fattispecie penalmente rilevante per il nostro ordinamento, il pagamento del debito effettuato da soggetto pienamente capace d’agire parrebbe anch’esso non  essere soggetto a restituzione (“ripetibile”) sulla base del concetto della “reciproca  turpitudine”.

Ragazzo morso da un ramarro, Caravaggio

Per approfondire:

Per approfondire “C. D’Orazio “Il Caravaggio segreto” ed. Pickwick 2017;

C. Bianca “Il diritto Civile  – L’obbligazione ed. Cedam 1993;

C. Mastromattei in arteword.it

L’eleganza della Modernità

“La modernità è il transitorio, il fuggitivo, la metà dell’arte la cui altra metà è l’eterno e l’immutabile” Charles Baudelaire

Il transitorio e il fuggitivo furono i tratti distintivi della  spasmodica ricerca di eleganza e  bellezza nella  Parigi che si accingeva a varcare la soglia del ventesimo secolo: fu allora che si consacrò il legame tra arte e moda, ancora vivente.

John Galliano per Christian Dior Houte Couture autunno inverno 2005 Parigi

John Galliano per Christian Dior Houte Couture autunno inverno 2005, Parigi

Lo spirito della Belle Epoque è ben rappresentato dall’interessante mostra dedicata a “Boldini e la Moda” allestita nel cinquecentesco Palazzo dei Diamanti a Ferrara: l’esposizione è un raffinato equilibrio tra la storia del costume di quegli anni e l’arte del maestro ferrarese, il quale attinse a piene mani dal mondo dei più celebri coutourier francesi, le cui creazioni erano tanto protagoniste delle opere quanto la modella che li indossava.

Boldini ritratto della Contessa Speranza

Boldini ritratto della Contessa Speranza

Giovanni Boldini  più di ogni altro colse il cambiamento  per la ricerca e valorizzazione di una femminilità più libera: le pose erano naturali ma guizzanti di una tensione seducente,  i colli lunghi, le spalle lasciate scoperte da irriverenti spalline che cadevano con studiata nonchalance, gli sguardi languidi su sorrisi appena accennati. Le sue “fammes” erano la rappresentazione della vera “Parisienne” (la parigina) ovvero la donna immagine di eleganza, stile  e bellezza.

Boldini in copertina sulla rivista Les Modes

Il successo di Boldini fu clamoroso: le signore dell’alta società, le più celebri attrici, ballerine e cantanti, tutte  ambivano essere ritratte dal maestro ferrarese e tutte furono vere professioniste della bellezza.

L'immagine raffigura il dipinto di Giovanni Boldini Giovane donna di profilo Eleonora Duse

Giovanni Boldini Giovane donna di profilo Eleonora Duse

Tra le “Divine” di Boldini  – così vennero definite – ammiriamo una giovanissima Eleonora Duse, raffigurata di profilo, la cantante Lina Cavalieri, descritta da Gabriele d’Annunzio nella sua opera “Il piacere” come “la massima testimonianza di Venere in Terra”, l’eccentrica marchesa Luisa Casati, la quale per tutta la vita ambì a vivere come “un’opera d’arte”.

Boldini ritratto di Lina Cavalieri

Boldini ritratto di Lina Cavalieri

Famosa fu la committenza da parte del marito della bellissima nobile siciliana Franca Florio: Boldini la raffigurò avvolta in un lungo abito di velluto di seta nera dalla generosa scollatura con una lunga collana di perle. La prima versione del quadro con la silhouette slanciata, la vita ben evidenziata  e la posa molto sensuale non venne ritenuta consona al lignaggio della dama; il dipinto fu accettato dal committente soltanto dopo ripetute correzioni e rivisitazioni.

Bodini ritratto Franca Florio

Boldini ritratto Franca Florio

 

La diffusione della cultura della moda divenne il mezzo scelto dalle signore per apparire e ottenere  l’ambita visibilità sociale: la donna divenne  un’opera d’arte da abbigliare con regole precise a seconda delle occasioni, il vestito, il trucco, il cappello, le scarpe, il ventaglio di piume; tutto doveva essere unico e perfetto.

Ventaglio epoca Belle Epoque

Ventaglio epoca Belle Epoque

Neppure gli uomini rimasero inerti di fronte al cambiamento:  i “dandy” furono l’espressione di questa ricercatezza nel vestire, rivolgendo la massima attenzione all’estetica complessiva della persona, poiché erano oggetto di grande cura e anche il comportamento e la raffinatezza della conversazione, come ben rappresentato nel ritratto del Marchese Robert de Montesquiou-Fézensac, icona del dandismo continentale.

Boldini ritrattL'immagine raffigura il ritratto del "Il conte Robert de Montesquiou Fézensac"

Boldini ritratto de “Il conte Robert de Montesquiou Fézensac”

Giovanni Boldini aprì la via della modernità, creando quel file rouge tra arte e moda  che pose la sconsiderata bellezza delle “Divine” al centro non solo della sua arte, ma della vita stessa: lui soltanto riuscì a  conferire alle proprie donne “l’apparenza di essere vestite”. Ancora oggi il potere evocativo e fortemente seduttivo di quei ritratti non è stato scalfito dal tempo e il fuggevole pensiero di come sarebbe stato essere la musa del Maestro ha attraversato la mente di molte, immaginando di veder  fissato sulla tela quell’attimo di assoluta, eterea, eterna bellezza.

L'immagine raffigura un ritratto di Boldini

Boldini ritratto

Per approfondire:

“Boldini e la Moda” Ferrara, Palazzo dei Diamanti 16 febbraio/2 giugno 2019  Catalogo Ufficiale, a cura di Barbara Guidi con la collaborazione di Virginia Hill; https://www.ildirittoperfetto.it/limmortale-eterea-bellezza/

La scienza dentro una melagrana

Arte e scienza sembrerebbero due modi lontanissimi tra loro: non è sempre vero, essendo connessi molto più intimamente di quanto si possa pensare.

E’ stato recentemente pubblicato su  “Interactive. Cardiovascular and Thoracic Surgery” (http://doi.org/10.1093/icvts/ivy321) un articolo che descrive l’anatomia cardiaca nascosta nel celebre dipinto la Madonna della Melagrana di Botticelli, esposto nella Galleria degli Uffizi a Firenze.

E’ un tondo di mirabile bellezza, al centro del quale la Madonna, con in braccio il Bambino, tiene in mano una melagrana leggermente aperta. Il disegno dell’interno del frutto con gli arilli ben visibili, separati da sottili membrane, sembra riprodurre fedelmente lo schema anatomico del cuore. Si possono distinguere l’atrio e il ventricolo destro e sinistro, l’arteria polmonare, mentre la corona del frutto rappresenta l’aorta nella parte più alta e la vena cava superiore in quella più bassa.

Madonna della Melagrana - Dettaglio, riproduzione dell'anatomia del cuore, Botticelli, Galleria degli Uffizi Firenze

Madonna della Melagrana – Dettaglio, riproduzione dell’anatomia del cuore, Botticelli, Galleria degli Uffizi Firenze

 

Anatomia del cuore

Anatomia del cuore

L’esattezza di questi dettagli è impressionante per considerarla una semplice coincidenza; quindi, è verosimile  la tesi degli autori dell’articolo in commento, considerato che è storicamente dimostrato che lo studio dell’anatomia nel Rinascimento fosse una pratica molto diffusa tra gli artisti: Botticelli, Pollaiolo e tutti i più grandi maestri dell’epoca celavano profonde conoscenze anatomiche.

Botticelli con questo espediente avrebbe inteso rappresentare il cuore e il sangue versato da Gesù per salvare l’umanità all’atto del sacrificio supremo.

Lo studio del corpo umano  risale a tempi antichi, ma la vera conoscenza anatomica inizia nel XIII secolo: l’Università di Bologna si è rivelata l’antesignana dell’anatomia umana. L’osservazione diretta dei corpi, attraverso le dissezioni, portò il suo più celebre esponente, Mondino de’ Liuzzi, a scrivere un trattato che rimasto una pietra miliare per molti anni.

Anche Leonardo da Vinci dedicò gran parte della sua vita allo studio diretto del corpo umano: lo scorso anno per celebrare i 730 dalla fondazione dell’Ospedale Santa Maria Nuova a Firenze sono state mostrate le “vasche di  Leonardo”, situate nei sotterranei della struttura, dove pare che Leonardo in segreto eseguisse a fini di studio le dissezioni dei cadaveri all’epoca vietate a Firenze.

Studi anatomici di Leonardo da Vinci

Studi anatomici di Leonardo da Vinci

Più tardi, nel 1543 Andrea Vesalius fondò la Scuola anatomica di Padova: la sua opera “De humani corporis fabrica” fu scritta basandosi sull’osservazione diretta dell’anatomia umana. Il suggestivo Teatro Anatomico, completato nel 1595, si trova  presso il palazzo del Bo dell’Università degli Studi di Padova ed è la più antica struttura permanente al mondo creata per l’insegnamento dell’anatomia e la dissezione dei cadaveri. La struttura a cono rovesciato permetteva agli studenti di assistere alla lezione che si svolgeva alla base, l’illuminazione era assicurata da candele e si racconta che per rendere l’atmosfera meno cupa era frequente l’esecuzione di musiche dal vivo.

Teatro Anatomico, Palazzo del Bo, Università degli Studi di Padova

Teatro Anatomico, Palazzo del Bo, Università degli Studi di Padova

 

Le pratiche necessarie per lo studio anatomico furono anche fortemente contraste, poiché ritenute sacrileghe. Tuttavia, le autorità ecclesiastiche mai posero il veto a tali studi: del resto non poteva essere diversamente, atteso che la maggior parte delle Università erano strettamente collegate alla Chiesa – Bologna in primis – e Papa Sisto IV nella bolla “De Cadaverum sectione” riconobbe l’anatomia come “utile pratica medica e artistica”.

Il Museo della Specola di Firenze – al di fuori dell’ordinario circuito turistico – merita una visita: è il museo di storia naturale più antico d’Europa; la sezione più interessante  (e impressionante) è quella dove sono esposte le cere anatomiche: sono dei modelli anatomici realizzati tra il XVIII e il XIX secolo con una tecnica molto raffinata,  finalizzati  a ottenere un vero e proprio trattato didattico scientifico dell’anatomia del corpo umano senza bisogno di osservare un cadavere. La precisione e i dettagli di queste opere nulla hanno da invidiare agli attuali supporti  digitali, o di realtà aumentata, ma rispetto ai sistemi moderni possono vantare l’indiscusso fascino  della storia.

Museo della Specola, Sala delle Cere Anatomiche, Firenze

Museo della Specola, Sala delle Cere Anatomiche, Firenze

In questo breve excursus nel secolare studio dell’anatomia permane un elemento attuale ancora oggi: il progresso della medicina e l’innovazione delle tecniche chirurgiche richiedono sempre un approccio diretto con  il corpo umano. Nel 2014  la Commissione Affari Sociali della Camera approvò un disegno di legge per regolamentare la donazione del corpo post mortem a fini scientifici, cosa che nel resto del mondo è un fatto assolutamente normale, mentre in Italia rimane ancora assai raro.

De iure condendo, ovvero in attesa che tali norme vengano approvate, i siti di alcune Università hanno stilato dei protocolli che consentono e regolano la donazione volontaria del corpo post mortem: si tratta di casi sporadici, poche decine ogni anno. Forse leggi certe accompagnate a una campagna di sensibilizzazione, come avvenuto quando è iniziata l’era dei trapianti, in futuro porteranno a comprendere il grande valore di questa scelta per il continuo progresso della scienza medica.

 

 

Per approfondire:

Per approfondire: https://academic.oup.com/icvts/advance-article/doi/10.1093/icvts/ivy321/5219001?searchresult=1 ; “La nascita dell’anatomia” in www.filosofiaescienza.it ; “Viaggio intorno al corpo” Dizionari dell’arte di G. Bordin, M. Bussagli, L. Polo D’Ambrosio ed. Mondadori Electa 2015; “Teatro Anatomico” in www.unipd.it

J’accuse…!

Politica, spionaggio e il potere della stampa: l’Affaire Dreyfus, il caso che fece tremare la Francia.

Nell’ottobre 1894 Alfred Dreyfus Capitano d’Artiglieria dello Stato Maggiore dell’Esercito francese, ebreo alsaziano, venne arrestato con l’accusa di alto tradimento, sospettato di aver fornito ai militari prussiani informazioni riservate.

Fotografia del Colonnello Alfred Dreyfus

Il Colonnello Alfred Dreyfus

L’indagine ebbe inizio quando un’addetta alle pulizie presso l’Ambasciata tedesca a Parigi, all’atto di ripulire uno dei cestini degli uffici, ritrovò una lista  (chiamata “bordereau”)  contenente cinque documenti segreti che l’anonimo mittente offriva in vendita ai tedeschi.

Immagine del Bordereau

Il Bordereau

La donna, che in realtà faceva parte del controspionaggio, consegnò il bordereau agli Ufficiali francesi:  dato il particolare contenuto del documento, i sospetti si concentrarono subito attorno a pochi ufficiali. La necessità di una rapida individuazione del colpevole portò a una sbrigativa e sommaria indagine, tutta basata  su una superficiale perizia calligrafica, secondo cui la scrittura del documento apparteneva al Capitano Dreyfus.

Processato in pochi mesi, Alfred Dreyfus, nonostante avesse professato la propria innocenza e totale estraneità ai fatti, fu condannato all’ergastolo,  degradato ritualmente davanti a truppe schierate, la sua sciabola spezzata e deportato nell’Isola del Diavolo, sperduta nella Guyana francese: per la Repubblica l’onta del tradimento era stata lavata e nessuno avrebbe più sentito parlare di quell’Ufficiale ebreo alsaziano.

Passarono un paio d’anni durante i quali vennero più volte reiterate le richieste di un approfondimento d’indagine da parte dei familiari di Dreyfus, ma per l’apparato militare il caso era da considerarsi definitivamente chiuso.

Inaspettatamente le circostanze mutarono: all’epoca il Colonello George Picquart era stato nominato a capo del Servizio Informazioni dello Stato Maggiore; per una pura coincidenza Picquart intercettò la missiva di un Ufficiale prussiano indirizzata al Maggiore dell’esercito francese Ferdinand Walsin Esterhazy, di nobili  (ma decadute) origini ungheresi.

Immagine del Colonnello Geroge Picquart

Il Colonello George Picquart

Immediatamente Picquart ripensò ai fatti che portarono alla condanna di Dreyfus e ottenne di poter visionare il fascicolo secretato: dai documenti agli atti risultava evidente che la calligrafia del bordereau  era stata erroneamente attribuita a Dreyfus, atteso che invece palesemente inchiodava Esterhazy.

Picquart riferì ai suoi superiori le proprie scoperte: gli Alti Ufficiali dell’esercito francese non si rivelarono affatto entusiasti di riconsiderare il caso dell’Ufficiale ebreo, condannato e deportato. La ragion di Stato e il potere del corpo militare francese non potevano piegarsi ad ammettere che la condanna di Dreyfus fosse un  clamoroso errore giudiziario.

Per tale ragione, nonostante le evidenze probatorie, Esterhazy sottoposto a processo venne assolto.

Il clamore per l’assoluzione portò alla pubblicazione in due famosi quotidiani di alcuni documenti segreti del fascicolo Dreyfus, da cui risultava la diversità della calligrafia di tali scritti rispetto a quella del condannato.

Il richiesta di verità dilagò e divise nettamente nell’opinione pubblica tra innocentisti e colpevolisti, coinvolgendo anche gli ambienti intellettuali maggiormente inclini a sostenere l’innocenza di Dreyfus.

La svolta avvenne il 13 gennaio 1898, quando il quotidiano L’Aurore pubblicò una lettera aperta dello scrittore Emile Zola, rivolta al Presidente della Repubblica francese: si trattava di un vero e proprio atto d’accusa, sostenuto dal celebre “J’accuse…” (io accuso), rivolto a ognuno dei responsabili dell’Affaire Dreyfus: il testo di Zola ebbe un effetto dirompente e scosse le coscienze, svelando la verità sulle macchinazioni di un’indagine scellerata e assolutamente parziale, sulle dichiarazioni fraudolente e menzognere dei periti, nonché sull’insabbiamento agli occhi dell’opinione pubblica.

L'immagine rappresenta la prima pagina del quotidiano L'Aurore con la lettera J'accuse di Emile Zola

J’accuse… di Emile Zola

Quell’edizione del quotidiano vendette oltre 300.000 copie (di media ne vendeva 20.000 al giorno) e la verità irruppe fragorosa anche in sede giudiziaria: Esterhazy confessò di essere la spia, Dreyfus ottenne la revisione del processo, ma il potere della Ragion di Stato non intendeva ancora cedere il passo alla giustizia e, incredibilmente, Dreyfus venne nuovamente condannato in primo grado per essere poi definitivamente assolto in appello con immediata reintegrazione nell’esercito.

Il J’accuse di Zola è sempre attuale, merita di essere letto e ricordato, non solo come alto grido di libertà, ma anche quale espressione del valore assoluto della verità  e della giustizia.

L'immagine rappresenta La Giustizia, Raffaello, Volta della Segnatura

La Giustizia, Raffaello, Volta della Segnatura

 

Per approfondire:

“L’affaire Dreyfus” di Emile Zola, Ed. Giuntina; www.raistoria.rai.it “L’affaire Dreyfus”; www.raistoria.rai.it “J’accuse”

Do you speak Italian? Yes, of course…

E’ ormai una consuetudine dimenticare quanto il nostro Paese e la sua Storia siano stati universalmente il centro dell’arte e della bellezza per antonomasia.
L'immagine rappresenta un'antica cartina dell'Italia

 

Questa cultura si  diffuse nel mondo anche grazie alla sua lingua, che vide gli albori con le opere di Dante, per  poi proseguire nei celebri versi di Petrarca, nell’Umanesimo e nel Rinascimento.

L'immagine raffigura Dante Alighieri che legge la Divina Commedia

La Divina Commedia, Dante Alighieri

Si trattava di una lingua di “cultura”, quasi una forma d’arte: la nostra dilagante Bellezza cinquecentesca travalicò i confini della penisola (seppur ancora lontana dall’essere Italia), insinuandosi nell’Europa continentale e oltre, arrivando sino all’Inghilterra, regno di Elisabetta I, figlia di Enrico VIII e Anna Bolena, ultima discendente della dinastia Tudor.

L'immagine rappresenta il ritratto di Elisabetta I

Ritratto di Elisabetta I

L’iconica sovrana inglese, colta e raffinata, era un’appassionata lettrice delle poesie di Petrarca, parlava e scriveva correttamente in italiano, ritendendolo la lingua della cultura per eccellenza, persino molto più “charmante” del francese. Pare avesse un insegnante madre lingua con cui conversare abitualmente ed era solita preferire l’italiano quando si trovava negoziare con gli spagnoli, i quali non svettavano nelle sue simpatie. Di recente è stato pubblicato un libro intitolato “Elisabeth I’s Italian Letters” che raccoglie le numerose missive scritte in italiano dalla Regina inglese ai più svariati personaggi dell’epoca da Ferdinando I de’ Medici a Wan-Li imperatore della Cina.

Oltre all’aspetto strettamente culturale connesso alla storica figura di questa grande sovrana, emerge qualcosa che nel tempo abbiamo dimenticato: l’importanza di curare la nostra lingua; infatti, se è vero che in passato essa fu un modo per fregiarsi del sapere superiore e, come tale, simbolo d’appartenenza all’élite delle persone colte, lontanissime dalle classi sociali medio-basse, oggi è parte integrante di noi, del nostro essere, della nostra vita.

L'immagine rappresenta la sede dell'Accademia della Crusca, Villa Castello, Firenze

Accademia della Crusca, Villa Castello, Firenze

La strenua difesa dell’italiano è affidata dal 1583 all’Accademia della Crusca, la più antica istituzione al mondo per il controllo della lingua: dalla sua sede  nella splendida Villa Medicea di Castello a Firenze, culla del nostro patrimonio linguistico, l’Accademia ancora oggi vigila e allerta sui rischi di un lento e inesorabile declino del nostro idioma.

L'immagine rappresenta gli interni dell'Accademia della Crusca

Accademia della Crusca, interni

Tra i fattori più preoccupanti sono menzionati i numerosissimi termini inglesi che ogni anno entrano a far parte del vocabolario della lingua italiana e che erodono il corrispondente lessico nazionale, talvolta inutilmente, essendovi in italiano un vocabolo che corrisponde perfettamente a quello inglese: un paio di esempi eclatanti che oggi dilagano nel lessico sia comune sia professionale sono “endorsment” per dire “sostegno, adesione”, oppure “mission” per riferirsi a una  “finalità” o uno “scopo”, o ancora “vision”, in pratica la visione o principio ispiratore di un certo progetto.

La protezione delle nostra lingua è doverosamente demandata anche alle istituzioni universitarie, comprese quelle di natura scientifica e tecnologica, le quali non sempre sono state all’altezza di tale compito. Un caso su tutti è emblematico: nel 2012 presso il Politecnico di Milano furono istituiti alcuni corsi avanzati e di dottorato soltanto in lingua inglese, escludendo totalmente la nazionale; il provvedimento del Rettore venne impugnato avanti al TAR da alcuni docenti dell’Istituto in ragione dell’illegittima totale esclusione dell’italiano. Il TAR diede ragione ai ricorrenti, ma la sentenza venne impugnata di fronte al Consiglio di Stato, il quale si rivolse alla Corte Costituzionale, sottoponendole la questione di legittimità con riferimento alla norma della “Riforma Gelmini”, diretta al “rafforzamento dell’internalizzazione” delle discipline di studio. Tralasciando gli aspetti tecnici del quesito rivolto alla Corte, il punto era stabilire se tale  norma fosse legittima nell’indicazione della possibilità di istituire corsi in lingua straniera, escludendo l’italiano.

L'immagine rappresenta l'aula della Corte Costituzionale a Roma

Corte Costituzionale, Roma

 

La Corte Costituzionale con la sentenza n. 42/2017 non ritenne la norma contraria alla Costituzione, ma si pronunciò con un’ineccepibile sentenza interpretativa, nella quale si evidenzia il primato delle lingua nazionale sulle altre. Si riporta un breve passaggio della motivazione, che vale la pena leggere: “La lingua italiana è dunque, nella sua ufficialità, e quindi primazia, vettore della cultura e della tradizione immanenti nella comunità nazionale, tutelate anche dall’art. 9 Cost. La progressiva integrazione sovranazionale degli ordinamenti e l’erosione dei confini nazionali determinati dalla globalizzazione possono insidiare senz’altro, sotto molteplici profili, tale funzione della lingua italiana: il plurilinguismo della società contemporanea, l’uso d’una specifica lingua in determinati ambiti del sapere umano, la diffusione a livello globale d’una o più lingue sono tutti fenomeni che, ormai penetrati nella vita dell’ordinamento costituzionale, affiancano la lingua nazionale nei più diversi campi. Tali fenomeni, tuttavia, non debbono costringere quest’ultima in una posizione di marginalità: al contrario, e anzi proprio in virtù della loro emersione, il primato della lingua italiana non solo è costituzionalmente indefettibile, bensì – lungi dall’essere una formale difesa di un retaggio del passato, inidonea a cogliere i mutamenti della modernità – diventa ancor più decisivo per la perdurante trasmissione del patrimonio storico e dell’identità della Repubblica, oltre che garanzia di salvaguardia e di valorizzazione dell’italiano come bene culturale in sé.”

Questa sentenza deve essere considerata un faro per tutti noi, nessuno escluso: siamo chiamati a proteggere e difendere la lingua italiana, il che non significa rimanere chiusi nel nostro piccolo baluardo, ottusi verso il resto del mondo; semplicemente vuole intendere che accanto alla lingua degli scambi internazionali per eccellenza, l’inglese, dobbiamo sempre e comunque tutelare il valore del nostro lessico nazionale con le sue mille sfaccettature e le diverse sfumature.

L'immagine raffigura un simbolo del multilinguismo nella UE

Il multilinguismo nella UE

Si consideri, inoltre, che uno dei principi ispiratori dell’Unione Europea è “uniti nella diversità” e le lingue ufficiali sono ben 24 e non tre (inglese, francese e tedesco) come si potrebbe pensare: nessuna delle lingue ufficiali prevale sull’altre, tutte hanno pari dignità e importanza.

L’italiano è una lingua abbastanza giovane, il suo consolidamento a livello nazionale è recente ed è stato il risultato di un lungo percorso, culminato con la capillare diffusione dei mezzi di comunicazione (radio e televisione) che l’hanno fatta diventare la lingua del popolo e non solo la lingua dei dotti o della legge, riservata a pochi eletti.

Nonostante questa giovinezza, il declino è in agguato e sta a noi proteggerla; la sopravvivenza di una lingua è sempre rimessa alla volontà del suo popolo: essa vivrà sin tanto che verrà parlata, scritta e valorizzata come patrimonio d’identità, storia e cultura.

L'immagine rappresenta le frecce tricolori

Frecce Tricolori

 

Per approfondire:

C. Marazzini “L’italiano è meraviglioso” Ed. Rizzoli 2018; L. Sampietro “La Regina innamorata dell’italiano” in www.ilsole24ore.com; /www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2017&numero=42; C. M. Bajetta “Elisabeth I’s Italian Letters” , Palgrave Macmillan, New York.

Congiure e cospirazioni

“Chi vuole esser lieto, sia: di doman non c'è certezza…”, i versi del Magnifico ricordano ancora oggi come possa essere incerto il futuro; la celebre casata fiorentina non fa eccezione, essendo stata vittima di una delle più cruente congiure della storia.

Firenze, anno 1478: i Medici erano i protagonisti indiscussi della vita economica e politica della città; a loro si contrapponeva la famiglia Pazzi, anch’essi banchieri, curavano gli interessi economici della curia romana e non mancavano di finanziare le mire espansionistiche del battagliero Papa Sisto IV; più a nord suo nipote, Girolamo Riario, Signore di Imola, sostenuto dal papato, tramava per ingrandire la Romagna in danno dei territori fiorentini. Aggiungiamo che Lorenzo de’ Medici aveva fama di essere abile banchiere, accorto politico e mecenate dell’arte: per suo merito ripresero vita la Scuola di Botticelli e quella di Verrocchio, primo il Maestro di un giovanissimo Leonardo da Vinci.

Particolare di due angeli dipinti da Leonardo nell'opera Battesimo di Cristo del Verrocchio

Particolare realizzato da Leonardo da Vinci mentre lavorava presso la bottega di Andrea Verrocchio a Firenze.

In questo panorama maturò il piano ordito dalla famiglia Pazzi e da Girolamo Riario per eliminare Lorenzo e Giuliano de’ Medici: ne erano a conoscenza e l’appoggiavano anche il Papa, il duca di Montefeltro e il Re di Napoli. Alla trama partecipò anche Francesco Salviati, arcivescovo di Pisa, che osteggiava i Medici per ragioni connesse all’arcivescovado di Firenze.

L'immagina raffigura il Duca di Montefeltro, Piero della Francesca, Galleria degli Uffizi Firenze

Il Duca di Montefeltro, Piero della Francesca, Galleria degli Uffizi, Firenze

Il piano sarebbe dovuto scattare in occasione di un banchetto offerto da Lorenzo al giovane cardinale Raffaello Riario – altro nipote di Sisto IV – ignaro però della cospirazione, ma non andò a buon fine per l’assenza di Giuliano.
La presenza di entrambi i fratelli era fondamentale, scattò quindi la seconda opzione. Il tutto doveva avvenire domenica 26 aprile 1478, durante la celebrazione in Santa Maria del Fiore, ma anche questa volta al corteo mancava Giuliano. Francesco de’ Pazzi e un altro congiurato si recarono a casa del fratello di Lorenzo, convincendolo a partecipare alla messa. Quando tutti furono riuniti in Chiesa, le vittime prescelte erano disarmate: Giuliano venne colpito per primo e morì sotto gli occhi di Lorenzo che, invece, fu ferito a una spalla, riuscendo a fuggire grazie al sacrificio del fedele amico Francesco Nori.

Tomba di Lorenzo e Giuliano de Medici

Tomba di Lorenzo e Giuliano De Medici. Al centro la Madonna con bambino è opera autografa di Michelangelo. Museo delle Cappelle Medicee, Firenze

La congiura era fallita, per gli assassini l’unica speranza di sopravvivenza era da ravvisarsi nel sostegno dei fiorentini contro la famiglia de’ Medici, ma non andò così.
Il popolo, quando apprese dell’accaduto, affollò rapidamente le vie di Firenze al grido “Palle, palle!”, il simbolo della Casata del Magnifico. Seguì  una rapidissima feroce repressione contro i cospiratori e i loro seguaci. I congiurati catturati e quelli sospettati di aver preso parte al piano vennero immediatamente giustiziati; taluni come Francesco Pazzi furono impiccati alla finestra del Palazzo della Signoria, la stessa fine toccò a Jacopo Pazzi catturato il giorno successivo.

L'immagina raffigura l'esecuzione di uno dei congiurati, disegno di Leonardo da Vinci

Esecuzione di uno dei congiurati, disegno di Leonardo da Vinci

Questo l’epilogo di una delle tante cospirazioni tese a sovvertire il potere, le cui condotte anche oggi integrano fattispecie penalmente rilevanti; le norme attuali reprimono modo netto tutte quelle attività di istigazione, nonché gli accordi prodromici e preparatori alla commissione dei reati in danno alla personalità dello Stato o finalizzati alla turbativa costituzionale mediante sovvertimenti interni, quand’anche tali fattispecie criminose non abbiano trovato esecuzione.

La punibilità di queste condotte va ricondotta alla loro natura di “reati di pericolo presunto”, i quali non ammettono prova contraria: in tali ipotesi si prevede un’anticipazione della soglia di punibilità della condotta, che viene sanzionata non per aver leso il bene protetto (lo Stato), ma per il solo fatto per averlo posto in una situazione di pericolo, determinata dall’esistenza di un accordo o di un’associazione.
In siffatti delitti la sanzione penale viene comminata a prescindere dal compimento di quei reati contro lo Stato: è l’ideazione stessa di tali delitti a essere sanzionata.
Le norme in tema di cospirazione derogano così al principio generale di non punibilità degli atti di istigazione e degli accordi diretti a commettere un delitto che non venga poi perpetrato, pur consentendo (le norme generali) l’applicazione di una misura di sicurezza.
Nel caso della congiura dei Pazzi, tesa a sovvertire il potere nella città di Firenze, l’intento criminale ebbe esecuzione, anche se non portò al raggiungimento del risultato auspicato: i fiorentini vendicarono seduta stante e con violenza l’affronto subito dai Medici. I Pazzi oltre alle condanne a morte subirono anche la damnatio memoriae: il loro nome venne cancellato da qualsiasi documento e dagli stemmi, dovevano scomparire dal qualsiasi memoria storica come se non fossero mai esistiti.

L'immagina raffigura lo stemma della famiglia dei Medici

Stemma famiglia dei Medici, Firenze

Per approfondire:

Per approfondire: M. Vannucci “I Medici una famiglia al potere – Newton Compton ed. 2017 – L. Delpino Diritto penale parte speciale ed. Simone 2001

Antiche condotte, nuovi reati: lo stalking

“Lo Stalking è un comportamento antico ma un nuovo crimine”: così scriveva lo psichiatra australiano J. R. Meloy nel 1999, ricordando come le condotte persecutorie esistano da tempo immemore anche se una specifica connotazione criminale è intervenuta soltanto negli ultimi decenni.
L'immagina raffigura la litografia Vincolo d'unione, Mauritius Cornelius Escher, 1956

Storia, miti e leggende traboccano di episodi persecutori: pensiamo ad Apollo e alla ninfa Dafne, a Zeus che pur di possedere Danae si trasformò in pioggia d’oro; come dimenticare Plutone che folle d’amore s’impossessò di Proserpina, scena magistralmente scolpita del Bernini.

L'immagine rappresenta Danae di G. Klimt

Danae, Gustav Klimt, Vienna

Anche nell’antica Roma il clima era pesante: Tacito narra la vicenda di Ottavio Sagitta invaghitosi di Ponzia, coniugata: il corteggiamento fu solerte, riuscì a concupirla e la indusse a divorziare per sposarla. La ragazza lasciò il marito, ma ripensò alla proposta del nuovo matrimonio, adducendo l’opposizione del padre. Al suo rifiuto, Ottavio Sagitta iniziò a perseguitarla, passando rapidamente dalle preghiere e promesse di amore eterno alle minacce, sino al fatidico ultimo incontro chiarificatore. Mai e poi mai accettare l’ultimo incontro. Il rischio, ora come allora, è di non uscirne vive: così accadde a Porzia pugnalata a morte e dopo di lei a molte, troppe altre.

L'immagine rappresenta il Foro romano a Roma

Foro romano, Roma

Lo stolker non è un soggetto specifico con caratteristiche peculiari: può essere chiunque, uno sconosciuto, un ex fidanzato o un marito; agisce per le ragioni più diverse: un rifiuto, la rottura di un legame o perché è un predatore a caccia della sua vittima. La pericolosità di questi soggetti non cambia.

L'immagine raffigura unParticolare de "Il ratto di Proserpina", Gian Lorenzo Bernini, Galleria Borghese, Roma

Particolare de “Il ratto di Proserpina”, Gian Lorenzo Bernini, Galleria Borghese, Roma

Il nostro ordinamento ha introdotto il reato di atti persecutori nel 2009: prima di allora queste condotte venivano comprese (sussunte nel linguaggio giuridico)  per lo più nell’ambito delle minacce e ingiurie, con sanzioni meramente pecuniarie assolutamente inconsistenti rispetto alla gravità dei fatti e alle sofferenze cagionate alle vittime.

La condotta di questo odioso delitto può essere la più varia: pedinamenti, innumerevoli telefonate alle ore più disparate,  mute, minacciose, offensive, scurrili, il campionario è vastissimo. Così come quello dei messaggi, delle chat, delle mail e di ogni altro mezzo di comunicazione e diffusione tecnologico.

Ovviamente il progresso affina le tecniche criminali, per cui oggi possiamo contare anche sulla deleteria diffusione di immagini o video della vittima nei social network: fermarne la diffusione è difficilissimo, se non impossibile. I casi della cronaca recente lo dimostrano ampiamente.

Talvolta si realizza una vera e propria evoluzione persecutoria: si parte con episodi minori per giungere  a situazioni di estremo pericolo per la vittima. Per questo, ripeto, è fondamentale non accettare il fatidico “ultimo incontro”.

Gli effetti sulla vittima sono devastanti: ansia, paura, stravolgimento delle proprie abitudini di vita. La parte offesa tende a uscire di meno e preferibilmente non da sola; si ingenera un disagio psichico connesso al timore per la sicurezza propria o di un prossimo congiunto.

Affinché sia ravvisabile la fattispecie di reato non è necessario che tale stato di disagio e paura sfoci in una patologia accertabile medicalmente: è sufficiente che la condotta offensiva provochi uno stato d’ansia o paura.

Il reato è perseguibile a querela di parte: nel caso di specie il termine per la proposizione è di sei mesi, il doppio rispetto a quello  ordinario, mentre la remissione è soltanto processuale, cioè in corso di udienza. Nei casi in cui lo stalking sia aggravato (perché compiuto dal coniuge, anche se legalmente separato, o dal compagno, o  commesso ai danni di un minore, donna in gravidanza, o di un disabile) la querela non è rimettibile e il procedimento penale prosegue sino alla sentenza.

Un intervento legislativo della fine del 2017 ha escluso che la riparazione del danno con versamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento prima del processo penale determini l’estinzione del reato, come previsto dall’art. 162 ter C. p.: la norma è stata introdotta dopo le giuste polemiche seguite alla decisione del Tribunale di Torino che aveva dichiarato estinto il delitto di stalking con il versamento della risibile somma di € 1.500,00, nonostante il rifiuto della alla parte offesa.

Le statistiche confermano che le vittime di questo crimine sono in maggioranza donne; nei casi in cui il reato sia posto in essere in danno di un uomo esiste un forte reticenza alla denuncia, verosimilmente per un retaggio culturale, come se la figura del maschio risultasse svilita e sminuita.

Per contrastare gli effetti devastanti di questo fenomeno sono allo studio particolari percorsi affidati ai Dipartimenti emergenza e urgenza delle Aziende Sanitarie per i pazienti che presentino un “trauma da aggressione”: al trattamento clinico necessario si unisce un sostegno psicologico con raccolta e conservazione di tutti gli elementi utili alla trattazione del caso.

Si deve dare atto che gli sforzi per fronteggiare ogni tipo di persecuzione e violenza, in particolare nei confronti delle donne, sono ravvisabili anche a livello internazionale: nella Convenzione di Istambul sulla “Prevenzione e lotta contro la violenza nei confronti delle donne e domestica”, ratificata dall’Italia con la Legge n. 119/2013, si invitano i Paesi aderenti ad adottare misure efficaci per la prevenzione e il contrasto delle violenze di genere e degli atti persecutori.

L'immagine raffigura una veduta di Istambul

Istambul

La strada sarà ancora lunga e richiederà un grande sforzo, soprattutto sul piano culturale e di sensibilizzazione, capace di produrre un’effettiva e reale accettazione della parità tra uomo e donna senza alcuna compromissione o rinuncia alle rispettive peculiarità.

 

Per approfondire:

L. Iavarone, Cristina Mancusi “Stalking. Nuova forma di cannibalismo predatorio” Aracne editrice, 2015; www.altalex.it “Il delitto di stalking alla luce delle più recenti pronunce” 18 marzo 2016.

La Natività perduta e l’ombra della criminalità organizzata

Palermo. 18 ottobre 1969. Le sorelle Gelfo scoprirono uno dei furti più clamorosi e oscuri della storia: il capolavoro di Caravaggio “Natività con i Santi Lorenzo e Francesco” era stato rubato dall’Oratorio di San Lorenzo.

La notizia lasciò il mondo attonito. La dinamica del furto fu di una semplicità disarmante: una porta rotta, niente allarme, nessuna misura di sicurezza, nulla era stato predisposto a protezione di una delle ultime opere del Merisi e l’unica presente a Palermo.

L’olio su tela era collocato sopra l’altare, incastonato tra i meravigliosi stucchi di Giacomo Serpotta e dominava la piccola chiesa dal 1609. I malviventi staccarono il dipinto dal muro, tagliando la tela in corrispondenza del bordo della cornice con una lametta da barba, dileguandosi indisturbati con un bottino dal valore inestimabile.

L'immagine rappresenta l'Oratorio san Lorenzo a Palermo

Oratorio San Lorenzo, Palermo

Scoperto il trafugamento, le forze dell’ordine compresero subito che il recupero dell’opera sarebbe stato difficilissimo, se non impossibile: non vi era alcun indizio e neppure avevano contezza del momento in cui il furto fosse stato commesso.  Secondo il racconto delle sorelle Gelfo, all’epoca custodi dell’Oratorio San Lorenzo, dal pomeriggio del 12 sino alla mattina del 18 ottobre nessuna di loro si recò presso la chiesa: un lasso di tempo troppo lungo, unito al fatto che – ovviamente – nessuno vide o sentì alcunché. L’indagine partì malissimo.

La graffiante penna di Leonardo Sciascia sferzò dalle pagine del Corriere delle Sera le pubbliche autorità siciliane, in particolare il Prefetto, scrivendo:

L'immagine riporta uno stralcio di un articolo di L. Sciascia scritto per il Corriere della Sera

Leonardo Sciascia dal Corriere delle Sera 1969

Le ipotesi formulate dagli inquirenti erano tre: ladruncoli da quattro soldi inconsapevoli del valore dell’opera (stimata all’epoca in un miliardo di lire), un’operazione di stampo mafioso, oppure un furto su commissione.

I giorni passavano e le indagini rimanevano incagliate, neppure l’offerta di denaro in cambio di informazioni sortì un qualche effetto, mentre cresceva il fondato  timore che il quadro potesse essere  stato distrutto perché non piazzabile sul mercato dell’antiquariato clandestino, oppure tagliato in più parti da vendersi separatamente, come il volto della Vergine illuminato dalla luce, il Bambino, o l’angelo che dall’alto domina la scena.

L'immagine raffigura un Particolare della Natività con i Santi Francesco e Lorenzo, Caravaggio

Particolare della Natività con i Santi Francesco e Lorenzo, Caravaggio

Per giorni la stampa evidenziò ripetutamente l’incuria dello Stato e delle amministrazioni locali nei confronti del patrimonio artistico siciliano, ritenendo l’accaduto un fatto del tutto prevedibile. Fu il giornalista Mauro De Mauro a spingersi oltre:  in esito a un’approfondita ricerca, il cronista documentò che esisteva una copia perfetta della Natività trafugata, dipinta da Paolo Geraci nel 1627. Effettivamente, nel novembre 1984 la copia del Geraci venne ritrovata a Catania.

Gli anni passarono e della Natività di Caravaggio nessuna traccia, sino al 1995: siamo nel corso del processo a carico di Giulio Andreotti, svoltosi nell’aula bunker dell’Ucciardone a Palermo. Durante una delle udienze, uno dei pentiti storici di Cosa Nostra, Francesco Marino Mannoia, affermò di essere stato uno degli autori del furto di un Caravaggio (senza specificare null’altro circa l’opera), di avere informato del fatto il Pubblico Ministero Giovanni Falcone e di aver precisato che la tela era andata distrutta, poiché irrimediabilmente danneggiata dopo essere stata piegata. La tela   – secondo il pentito – sarebbe dovuta andare al senatore Andreotti. Su quest’ultimo punto la dichiarazione del collaboratore di giustizia rimase priva del benché minimo riscontro probatorio, ma la pista mafiosa non fu abbandonata.

Gli investigatori del Nucleo Tutela Patrimonio Artistico non credettero alla distruzione del capolavoro caravaggesco, del quale si tornò a parlare nel 1998, durante il processo di Firenze per la strage dei Georgofili del 27 marzo 1993.

L'immagine raffigura la strage di via dei Georgofili del 27 maggio 1993

Strage di via dei Georgofili a Firenze, 27 maggio 1993

Per capire i fatti dobbiamo fare un passo indietro: il 23 maggio del 1992 il Giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i cinque agenti della scorta persero la vita nella famigerata strage di Capaci; meno di due mesi dopo, il 19 luglio 1992, il Giudice Paolo Borsellino e altri cinque agenti vennero uccisi nella strage di Via D’Amelio a Palermo.

L'immagine raffigura una fotografia dei Giudici Falcone e Borsellino

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino

Quel periodo può essere ricordato tra i più cupi e duri della storia italiana. La gravità di quei fatti scosse la coscienza collettiva: era tempo per lo Stato di reagire e contrastare la mafia con fermezza e con ogni mezzo. Fu allora che venne introdotto l’art. 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario, disposizione meglio nota come “carcere duro per i mafiosi”.

La norma trova applicazione nei confronti dei soggetti imputati o condannati per reati commessi  avvalendosi o agevolando l’associazione di stampo mafioso. Le severe restrizioni imposte dall’art. 41 bis limitano fortemente i contatti del detenuto sia con l’esterno, sia con l’ambiente carcerario, in quanto era stato appurato che il regime detentivo ordinario non impediva ai boss di Cosa Nostra di dirigere i loro traffici e dare ogni disposizione necessaria dal carcere.

Più volte il disposto in questione è stato sottoposto al vaglio della Corte Costituzionale, nonché della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo poiché tacciato di disumanità: entrambe le Corti ne hanno sempre riconosciuto la legittimità per l’evidente l’utilità della misura nel contrasto al fenomeno mafioso e la necessaria tutela della collettività da soggetti di accertata pericolosità.

L'immagine rappresenta l'aula della Corte Costituzionale a Roma

Corte Costituzionale, Roma

Tornando al processo di Firenze per la strage dei Georgofili, dagli atti risulta che l’attentato fu commesso dalla mafia per indurre lo Stato a revocare la misura del 41 bis, atteso che ogni altro tipo di trattativa, compresa la restituzione di importanti opere d’arte, non aveva trovato positivo riscontro. Lo Stato non cedette alle pressioni e il regime del carcere duro da misura temporanea per il periodo di tre anni venne resa definitiva nel 2002.

Da quei tragici fatti la lotta alla criminalità organizzata ha riscosso importanti successi e tutt’ora continua indefessa; forse la Natività non è andata perduta. Secondo le notizie apprese negli ultimi giorni dalla Commissione Antimafia, il   dipinto si troverebbe in Svizzera. Pare  che l’opera fu trafugata da balordi, quindi consegnata a Stefano Bontate e poi al boss Tano Badalamenti (condannato all’ergastolo anche per l’omicidio di Peppino Impastato) che la portò all’estero, verosimilmente nel paese elvetico.

Alla luce degli ultimi avvenimenti possiamo ancora sperare nel recupero di questo superbo capolavoro per troppo tempo sottratto all’Italia, alla città di Palermo e all’intera Umanità.

 

 

Per approfondire:

R. Fagiolo “L’ombra di Caravaggio”, Edizione Speciale per il Corriere della Sera, 2017; A. Della Bella Diritto on line “Carcere duro” in www.treccani.it; www.ilfattoquotidiano.it sez. attualità, “Palermo, il caso del Caravaggio rubato. Per la commissione antimafia non è stato distrutto” del 28 maggio 2018.