Il falsario che ingannò i nazisti

L’indurre taluno in errore con artifizi e raggiri al fine di trarne un ingiusto profitto, con altrui danno, è il tratto tipico della condotta del truffatore.

La truffa è un reato perseguito da tempo immemore, poiché strettamente legato alla natura umana, non sempre così attenta alla legalità e all’etica quando si parla del proprio tornaconto.
L’inganno è il cuore dei questo delitto, frequentemente perpetrato da soggetti dotati di un’intelligenza fuori dal comune, con spiccati talenti nel rappresentare attraverso credibili argomentazioni il falso per il vero, o nel far apparire ciò che non è.
I falsari di opere d’arte sono certamente tra i più celebri e – forse – tra quelli che destano minor sdegno, affascinando per l’abilità e l’ingegno. Han Van Meegeren, olandese dei primi del ‘900, era molto di più un falsario, era un vero artista con una forte propensione per Veermer, del quale non solo riprodusse alcune tele, ma ne dipinse di nuove attribuendole – con successo – al pittore del ‘600.

L'immagine rappresenta il falsario Han Van Meegern all'opera

Han Van Meegeren all’opera

Egli aveva fatto proprio il tocco e il tratto del fiammingo: utilizzava gli stessi colori, in particolare il blu di lapislazzuli con olio di lillà che stendeva con pennelli dell’epoca su tele originali del 1600. Aggiungendo della polvere riusciva persino a riprodurre la “craquelure”, ovvero quel reticolo di crepe che si forma con il tempo sulla superficie dei dipinti.

L'immagine rappresenta La cena di Emmaus - Falso di Han van Meegeren

La cena di Emmaus – Falso di Han Van Meegeren

I suoi falsi lo resero ricco, ma la beffa più grande fu compiuta ai danni dei nazisti. Nel 1942 si era sparsa la voce del ritrovamento in Olanda di un nuovo Veermer, “Il Cristo e l’adultera”: la notizia raggiunse presto anche alle alte sfere del partito nazista.

L'mmagine rappresenta "Il Cristo e l'adultera" - falso di Han Van Meegeren

Il Cristo e l’adultera – falso di Han Van Meegeren

Hermann Goering, luogotenente di Hitler, appassionato collezionista di arte non perse tempo e per evidenti “ragioni di Stato” si attivò per l’acquisto della tela.

L'immagine è la fotografia del gerarca nazista Hermann Goering

Hermann Goring

Al posto del pagamento del prezzo, i nazisti offrirono agli olandesi la restituzione di duecento opere precedente trafugate dal paese e acquisite al patrimonio tedesco. L’affare andò a buon fine: i nazisti non scoprirono mai di aver acquistato un falso e l’Olanda ritornò in possesso del proprio ingente patrimonio artistico.

Cinque anni più tardi, per una serie di sfortunate circostanze, Van Meegeren venne sottoposto a un processo con l’accusa di collaborazionismo per aver venduto opere d’arte al nemico nel corso della guerra: rischiava l’ergastolo. L’unica linea di difesa efficace contro quella pesantissima imputazione era ammettere la verità: egli stesso confessò alla Corte di aver rifilato ai tedeschi un falso Veermer.

L'immagine riporta un momento del processo di Han van Meegeren

Han Van Meegeren sotto processo

Rivelò di essere in grado di riprodurre perfettamente i capolavori del fiammingo, tanto è vero che molti suoi dipinti erano stati certificati e attribuiti senza dubbio a Veermer. Per l’accusa la confessione non era credibile: l’istruttoria dibattimentale fu molto articolata, vennero effettuate perizie e sentiti esperti senza arrivare ad alcun risultato definitivo: non vi era la certezza che i dipinti sottoposti alle consulenze tecniche fossero effettivamente dei falsi.

L’accusa chiese all’imputato di fornire le prove a sostegno della propria difesa. Per il falsario l’unico modo per dimostrare la veridicità di quanto asserito era riprodurre ancora una volta un’opera del fiammingo.

Il processo appassionò moltissimo l’opinione pubblica, che era schierata compatta con Van Meegreren: il falsario in poco tempo realizzò l’ennesimo capolavoro, mostrando all’accusa e alla Corte tutto il suo genio.

Le cronache raccontano come ancora oggi non si sia certi del fatto che tutte le opere esposte nei più prestigiosi musei del mondo attribuite al pittore Veermer siano davvero opera della sua mano… oppure se siano il lavoro di un genio indiscusso vissuto un paio di secoli dopo.

 

Per approfondire:

(Per approfondire: D. Polifonico tratto da Enciclopedia del Crimine – ©Fratelli Fabbri Editori, 1974)

Il virtuosismo velato

“Avrei dato dieci anni della mia vita pur di essere stato lo scultore del Cristo Velato”, questo disse Antonio Canova quando si trovò al cospetto dell’opera commissionata da Raimondo di Sangro a Giuseppe Sanmartino, scultore non particolarmente noto all’epoca, per la splendida Cappella di San Severo a Napoli.
L'immagina raffigura la scultura del Cristo Velato custodita nella Cappella di San Severo a Napoli

Il committente specificò che si trattava di una “statua di marmo a grandezza naturale, rappresentante Nostro Signore Gesù Cristo morto, coperto da un sudario trasparente realizzato dallo stesso blocco di pietra.”
Di fronte a questa scultura nessuno si sottrae allo stupore: il corpo giace con il capo reclinato. La morte è appena sopraggiunta, si vedono le ferite, il volto è incavato, ma allo stesso tempo disteso, si nota una vena sulla fronte.

L'immagina rappresenta il volto del Cristo Velato Cappella di San Severo, Napoli

Cristo Velato – Dettaglio – Cappella di San Severo, Napoli

Le braccia rilasciate lungo il corpo, le mani abbandonate mostrano ancora le vene: tutto è estremamente reale e porta a pensare che chi l’ha scolpito avesse conoscenza diretta l’effetto naturale della vita che sfuma dal corpo per diventare puro spirito.
Il Cristo è coperto da un velo, impalpabile, quasi trasparente, leggerissimo eppure dal potere evocativo straordinario, in grado di ampliare l’immagine della sofferenza patita per il sacrificio supremo.

L'immagina raffigura il particolare del braccio della scultura del Cristo Velato custodita nella Cappella di San Severo a Napoli

Cristo Velato – Dettaglio – Cappella di San Severo, Napoli

Il virtuosismo della scultura è talmente alto che per lungo tempo si è dubitato del fatto che il sudario fosse davvero frutto della sola mano dello scultore: si è asserito che fosse l’esito di processi alchemici, oppure si poteva trattare di un composto di polvere di marmo trattato in modo particolare. Non si è mai giunti a una risposta certa, ma la questione ha poca importanza di fronte alla magnificenza di questo capolavoro e alla forza del suo messaggio.

L'immagine raffigura un dettaglio del sudario del Cristo Velato

Cristo Velato – Dettaglio del sudario – Cappella di San Severo , Napoli

Il dolore e la sofferenza non sono concetti avulsi dal Diritto, in quanto afferenti alla vita, bene supremo della persona, alla salute e alla dignità, quali diritti costituzionalmente tutelati.
Da pochi giorni, dopo un lungo e tortuoso percorso, sono entrate in vigore le norme sul biotestamento: la persona informata, alla quale sia stato spiegato dai medici la patologia, le terapie indicate e i probabili esiti di cura, è libera di decidere se sottoporsi o meno ai trattamenti sanitari, potendo in qualsiasi momento – nei modi stabiliti dalla legge – revocare un consenso precedentemente prestato.
Tali scelte, operate quando si è ben consapevoli delle conseguenze derivanti da un eventuale diniego alle cure, possono essere effettuate anche in via anticipata, grazie alle “Disposizioni anticipatorie di trattamento”. In questo caso, il paziente, al quale il medico ha rappresentato la situazione clinica e le opzioni terapeutiche, esprime – in via preventiva – la propria volontà nell’ipotesi in cui venisse a trovarsi nell’impossibilità di manifestare validamente il proprio consenso, o dissenso, per incapacità d’intendere e volere.
Alle persone che decidono di rinunciare alle cure e ai trattamenti sanitari, nei quali sono compresi anche l’alimentazione e l’idratazione artificiali, è sempre garantita la terapia del dolore e le cure palliative. Inoltre, è vietato l’accanimento terapeutico.
Di fronte alla sofferenza senza fine, quando rimane soltanto l’ineluttabile, non esiste il Diritto Perfetto: rimane soltanto la possibilità di riconoscere al soggetto una libertà di scelta in ragione del principio di autodeterminazione che tutela la dignità della persona. Ne è espressione il disposto che consente ai malati terminali, refrattari a qualsiasi tipo di trattamento sanitario, di chiedere al medico curante di far ricorso alla sedazione palliativa profonda, che porterà la persona di addormentarsi, lasciando la fine della vita il suo decorso naturale senza ulteriori sofferenze.

 

Per approfondire:

(Per approfondire “Raimondo di Sangro principe di San Severo” di A. E. Piedimonte ed. Intra Moenia 2012)

Guardami negli occhi

Uno sguardo ammaliatore che carpisce gli occhi e la mente può essere arma pericolosissima quando il fine sia l’inganno e non la conquista.
L'immagine rappresenta "La buona ventura" - Carvaggio esposta ai Musei Capitolini Roma

Caravaggio fu maestro nel rappresentare questo delicatissimo gioco seduttivo e quanto a esso sia sotteso. Nel celebre dipinto “La buona ventura” sceglie come modella una giovane graziosa gitana, con indosso l’abito tradizionale delle veggenti, caratterizzato da un panno rosso legato su una spalla e un turbante sulla testa che le dona un’intrigante aria esotica. Lei delicatamente prende la mano del giovane elegante con cappello piumato e spada al fianco. Il gesto è sottile, il tocco lieve, tutto avviene mentre lei lo guarda languidamente con  l’accenno di un sorriso e lui si lascia irretire senza opporre la minima resistenza.

L’inganno è in quello sguardo che sposta l’attenzione del ragazzo dalla predizione del futuro a ben altri pensieri. L’abilissima gitana con una carezza gli sfila l’anello d’oro dall’anulare senza che lui neppure se ne accorga.

L'immagine rappresenta il particolare delle mani de "La buona ventura" - Carvaggio esposta ai Musei Capitolini Roma

Particolare de “La buona ventura” – Caravaggio Musei Capitolini Roma

Dall’epoca di Caravaggio il furto non è mutato particolarmente: è uno dei delitti che  rientrano nel novero dei cosiddetti “crimini a costante storica“, poiché sottratti all’evoluzione del tempo che ne ha raffinato soltanto modalità di esecuzione (grazie al progresso,  quello  tecnologico in particolare), mentre la struttura del reato è rimasta immutata.

Se il fatto è commesso con destrezza, ossia con un particolare  ingegno, con astuzia e scaltrezza scatta un’aggravante speciale (in quanto specifica per questo reato) che aumenta la sanzione comminata dalla norma prevista per il furto semplice.

L’abilità straordinaria di questo tipo di ladro – nettamente superiore al ladro comune – lo rende socialmente molto pericoloso, in quanto è in grado di superare la normale vigilanza dell’uomo medio, rendendo particolarmente difficile  qualsiasi forma di protezione e difesa della vittima. Non ricorre, invece, l’aggravante in questione qualora il furto sia commesso in un momento di distrazione del derubato, poiché in questo caso non vi è alcuna speciale abilità o scaltrezza del ladro nell’atto del sottrarre il bene e l’azione è agevolata soltanto dal calo di attenzione della parte offesa.

Si pensa che “La buona ventura” racconti anche qualcos’altro: a ben guardare la zingara non sfila un  anello qualsiasi, ma la fede nuziale del giovane (il fatto che sia alla mano destra può dipendere dalla riproduzione di una scena riflessa). Questo particolare apre un’altra interpretazione – più sottile ed evocativa – del messaggio apparente: il furto sarebbe in realtà la punizione inflitta al giovane per essersi lasciato tentare dalle lusinghe della ragazza nonostante il vincolo matrimoniale. In altre parole, sarebbe il prezzo da pagare per l’infedeltà sottesa, per non aver saputo resistere alla seduzione di due occhi tentatori.

Questo dipinto, insieme a “I bari”, altro grande capolavoro del Merisi, rappresenta il punto di svolta della carriera di Caravaggio a Roma: per la prima volta un artista raffigura scene tratte dal mondo che lo circonda, racconta di vizi, delitti e gioco d’azzardo e molti dei suoi personaggi furono reali, verosimilmente incontrati dall’artista nei vicoli del rione Campo Marzio.

L'immagine rappresenta il dipinto "I bari" di Caravaggio

“I bari” Caravaggio

Fu lo storico Giovan Pietro Bellori nel suo trattato “Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni” a confermare questa circostanza, scrivendo “Chiamò una Zingana, che passava a caso per istrada, e condottala all’albergo, la ritrasse in atto di predire l’avventure come sogliono queste donne di razza Egittiana: Facevi un giovine il quale posa la mano con il guanto su spada, e porge l’altra scoperta a costei…”.

L'immagine è la fotografia del libro di G. P. Bellori "Le vite de' pittori, scultori e architetti moderni"

G. P. Bellori “Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni” – Michelangelo Merisi

Entrambi i dipinti furono acquistati dal Cardinale Francesco Maria del Monte il quale, intuito il genio dell’artista, gli offrì un alloggio, uno studio e protezione, aprendogli la via per entrare nella storia sino a quando Caravaggio, dalla condotta sempre intemperante,  fu costretto a una fuga repentina con la pensatissima accusa di omicidio pendente sulla testa… ma questa sarà un’altra storia.

 

Per approfondire:
  • G. Findaca E. Musco “Diritto Penale – Parte Speciale I delitti contro il patrimonio” Vol. II, Zanichelli ed. 2005;
  • C. D’Orazio “Caravaggio Segreto” ed. Pickwick 2017;
  • Cassazione Penale SS. UU., sentenza n. 34090 del 12/7/2017,

Un teatro unico al mondo

“Il teatro Olimpico è un teatro d’altri tempi, realizzato in piccole proporzioni e di inarrivabile bellezza”, con queste parole Goethe descriveva il meraviglioso gioiello ideato e disegnato dall’inconfondibile mano di Andrea Palladio.
Immagine del teatro Olimpico a Vicenza

Fu commissionato al celebre architetto dall’Accademia Olimpica, istituzione culturale fondata a Vicenza nel 1555 da nobili, intellettuali e artisti – lo stesso Palladio ne era membro – il cui fine era quello di coltivare e diffondere tutte le arti: dalla musica alle lettere, alla filosofia, senza escludere lo studio della matematica, della medicina e l’esercizio delle armi con maestri di scherma ed equitazione.

Il costo per la realizzazione del teatro fu interamente sostenuto dagli Olimpici: a chi contribuì venne assegnata una delle statue – a sua immagine –  collocate sopra la gradinata; la posizione di ciascuno dipendeva  dall’entità del contributo versato.

L'immagine è la fotografia dell'interno del teatro: la gradinata con il colonnato e le statue

Teatro Olimpico – Colonnato e statue

Per il progetto Palladio s’ispirò dichiaratamente ai teatri romani descritti da Vitruvio, con una cavea gradinata ellittica, circondata da un colonnato con statue sul fregio. Purtroppo l’architetto  non vide mai la realizzazione del suo progetto e l’opera venne portata a compimento dal figlio Silla, che la consegnò all’Accademia nel 1583.

Ritratto di Andrea Palladio

Andrea Palladio

Il maestoso e coreografico proscenio, che riproduce le sette vie di Tebe, fu ideato da Vincenzo Scamozzi per la rappresentazione dell’Edipo Re di Sofocle: l’allestimento fu talmente suggestivo  che divenne parte integrante del teatro e può essere ammirato ancora oggi.

Immagine del proscenio del Teatro Olimpico ideato da Vincenzo Scamozzi

Teatro Olimpico – Proscenio

Ora come allora chi accede all’Olimpico rimane stupito e senza parole per la meraviglia, la sensazione è di varcare una porta e tornare indietro nel tempo in un silenzio quasi surreale.

L’atmosfera è unica, difficilmente descrivibile se non si ha avuto la fortunata occasione di assistere a uno spettacolo o a un concerto. L’acustica è straordinaria: la musica arriva allo spettatore piena e limpida in tutto il suo colore, avvolgendolo completamente, persino il pianissimo – anche di un solo pianoforte – si sente chiaro e morbido,  portando con sé l’intero racconto del compositore.

La bellezza classica di questo teatro lo rese famoso già all’epoca, diventando altresì luogo di rappresentanza per accogliere Papi e imperatori; anche l’attività dell’Accademia continuò nei secoli successivi, sino al famigerato decreto Napoleonico del 25 aprile 1810. Il provvedimento dispose – tra l’altro – la soppressione di quasi tutti gli istituti e le corporazioni comuni, nonché – e soprattutto – delle associazioni ecclesiastiche di qualunque natura. Si salvarono soltanto alcuni enti religiosi, come i vescovati o le collegiate e altri elencati nel decreto.

La manovra era diretta ad appropriarsi subdolamente dei beni e delle ricchezze degli enti soppressi -, quelli religiosi in particolare – che d’amblée passarono in proprietà del Monte Napoleone (istituzione finanziaria preposta alla gestione del debito pubblico del Regno d’Italia). Si salvarono soltanto quei beni che per convenzione dovevano tornare a comuni o privati in caso di soppressione dell’ente.

L’Accademia Olimpica, prima di essere travolta dagli effetti del citato provvedimento, con una mossa astuta e a sorpresa, cedette la titolarità del Teatro Olimpico alla Città di Vicenza, salvandolo così dal trasferimento in mani  – anche solo indirettamente –  francesi, riservandosene l’uso perpetuo.

Ironia della storia: la strada dove sorgeva la sede dell’istituto Monte Napoleone è oggi uno dei luoghi più famosi al mondo per l’eleganza e il glamour: parliamo di  Via Montenapoleone a Milano.

Tornado all’Accademia Olimpica, fu riattivata nel 1843 e riprese la propria attività di diffusione culturale che perdura ancora oggi.

Il genio di Andrea Palladio ha regalato alla Città di Vicenza – e al Veneto – capolavori di  straordinaria bellezza: Goethe abbagliato dalla magnificenza dell’architettura palladiana, nel Diario di Viaggio 1786/1787, scrisse « V’è davvero alcunché di divino nei suoi progetti, né meno della forza del grande poeta, che dalla verità e dalla finzione trae una terza realtà, affascinante nella sua fittizia esistenza. »

Immagine della Rotonda del Palladio

La Rotonda di Andrea Palladio
(Villa Almerico Capra)

Tra le ville venete spicca la famosissima Rotonda (Villa Almerico Capra): l’edificio a pianta quadrata è posto sulla sommità di una dolce collina alle porte di Vicenza. Fu creata come luogo per l’intrattenimento colto ed è celebre per i suoi quattro loggiati uguali dai quali si può godere lo splendido paesaggio dei Colli Berici.

Vita della Rotonda e del giardino

La Rotonda – Il giardino

Grazie al Palladio la Città di Vicenza con il suo teatro-gioiello e le sue ville sono parte della Lista del Patrimonio Mondiale dell’Unesco: l’Organizzazione, facente parte dell’ONU, fu fondata nel 1945, con il proposito di mantenere la pace e il rispetto dei Diritti Umani attraverso la diffusione della cultura e dell’educazione al rispetto e alla conservazione del Patrimonio dell’Umanità.

 

Per approfondire:

www.ilteatrolimpicovicenza.it; www.accademiaolimpica.it/lastoria; www.lombardiabeniculturali.it – fonti documentate – Legislazione Storica; www.istitutoveneto.it; www.unesco.it

La Calunnia è un venticello…

“La calunnia è un venticello, un'auretta assai gentile che insensibile, sottile, leggermente, dolcemente incomincia a sussurrar…”: si apre così la celebre aria di Don Basilio nel Barbiere di Rossini, che continua in un crescendo inesorabile che avvolge e travolge la vittima.

La falsa attribuzione avanti all’Autorità di una condotta delittuosa è pratica antica come il mondo e sostanzialmente i connotati di questo odioso reato nel tempo non sono mutati più di tanto.
Ne abbiamo traccia già nel IV secolo a. C.: ne fu vittima Apelle di Efeso, il più noto pittore dell’epoca; il fatto è precisamente narrato dal sofista greco Luciano nel suo trattato “Non bisogna prestar fede alla calunnia “: si racconta come il pittore Antifilo – rivale di Apelle – avesse riferito a re Tolomeo che la rivolta di Tiro sarebbe stata suggerita da Apelle stesso, il quale nel corso di un banchetto avrebbe dato tutte istruzioni del caso a Teodoto governatore della Frigia.
Re Tolomeo, appresa l’accusa di cospirazione in capo al suo artista di punta, al quale aveva concesso innumerevoli benefici, non avviò alcuna istruttoria, né richiese di quali prove l’accusatore potesse disporre: si scagliò contro Apelle, apostrofandolo duramente e condannandolo a morte per decapitazione.
Soltanto un compagno di prigionia dell’artista, colpito dalla sfrontatezza di Antifilo, ebbe pietà di Apelle e testimoniò la verità di fronte al Re Tolomeo, riferendo che il pittore mai si era recato a Tiro: egli era innocente e del tutto estraneo ai fatti contestati.
Il re Tolomeo tornò sui suoi passi e per riparare all’incauto giudizio diede cento talenti ad Apelle, consegnandogli Antifilo come schiavo.
Apelle, a futura memoria, dipinse un quadro nel quale era illustrata la sua vicenda: l’opera fu dettagliatamente descritta da Luciano ed era nota agli artisti del rinascimento.

L'immagine rappresenta la Calunnia del pittore Apelle

F. Zuccari “La calunnia di Apelle” – Disegno

Nel 1494 Botticelli, in una celebre e straordinaria allegoria, rappresentò la calunnia in danno di Apelle, l’opera è oggi custodita alla Galleria degli Uffizi. Gli elementi del reato vi sono tutti: la Calunnia che trascina la vittima davanti al re, porgendogli una fiaccola senza luce, in quanto fonte di una falsa conoscenza.
L’Ignoranza e il Sospetto sussurrano alle orecchie d’asino del Re, così rappresentato come pessimo giudice.
Attrae l’attenzione una cupa figura nera incappucciata: è il Rimorso, o pentimento, che consegue all’accertamento della calunnia, mentre guarda sottecchi la statuaria e luminosa Verità.
Sono presenti anche l’Invidia e la Falsità che ancora oggi giocano un ruolo spesso determinante per la commissione di questo delitto. Tuttavia, l’elemento essenziale e dirimente è rappresentato dalla coscienza e volontà della falsa accusa mossa nei confronti della vittima avanti all’Autorità: il reo deve essere sempre consapevole dell’innocenza del calunniato.

Il particolare disvalore sociale della calunnia è ravvisabile nel fatto che il pentimento e il risarcimento monetario quasi mai elidono il danno provocato alla reputazione. Rimarrà difficile arginare il sospetto sotteso, il velato dileggio e quella chiacchiera che aleggerà ancora: al tempo e all’oblio la soluzione naturale.

Per approfondire:

G. Fiandaca E. Musco “Diritto Penale – parte speciale” Vol. II, tomo primo, I delitti contro la persona, ed. Zanichelli 2010

Una volta di stelle per rimettere il peccato.

La storia racconta di uomini che per redimersi da condotte disdicevoli, o peggio, hanno ritenuto di poter espiare i loro torti senza scontare la giusta sanzione, realizzando magnifiche opere destinate alla collettività, con il sotteso fine di lavarsi la coscienza davanti a Dio e alla Società.

Il Diritto Perfetto - Cappella degli Scrovegni

La storia della Cappella degli Scrovegni, capolavoro patavino frutto della delicatissima e innovativa mano di Giotto, non si discosta molto da tali abitudini: secondo le fonti, Enrico Scrovegni, esponente della nobile famiglia padovana, il 6 febbraio del 1300 acquistò da Manfredo Dalesmanini il terreno su cui – ancora oggi – sono visibili i resti di un’antica arena romana. Sembra che la compravendita sia stata agevolata dalla necessità del venditore di risolvere una difficile situazione finanziaria.

All’epoca gli Scrovegni potevano contare su un ingente patrimonio, frutto della sfrenata attività di usuraio di Reginaldo – padre di Enrico – il quale era odiato e detestato come nessun altro dai concittadini per aver crudelmente tratto ingenti profitti dalle loro difficoltà. Pare che alla sua morte, avvenuta nel 1301, il popolo volesse saccheggiare e dare alle fiamme il palazzo di famiglia, che si trovava dove oggi sorge il Palazzo del Monte di Pietà, vicino al Duomo.
L’odiosa pratica dell’usura ha radici nel tempo immemore ed è stata oggetto di ferme condanne dall’antichità sino ai giorni nostri ma, nonostante questo, risulta essere una piaga quasi impossibile da debellare.

Il Diritto perfetto - Cappella degli Scrovegni

La Cappella degli Scrovegni – Dettaglio


Ora come allora, tale condotta costituisce un crimine punito con severe sanzioni, in ragione della spiccata pericolosità sociale attribuitagli dall’ordinamento: per questo motivo l’originaria formulazione del reato del codice Rocco è stata ampliata, svincolandola dal presupposto dello stato di bisogno della vittima – troppo restrittivo per un’efficace politica criminale – spostandolo sull’ampio piano della difficoltà economica o finanziaria.
Purtroppo le cifre reali dell’usura sono difficilmente accertabili, vista la persistente ritrosia delle vittime a sporgere denuncia, sia per paura di ritorsioni e ricatti della più svariata natura, ma anche per un senso di vergogna connesso al fatto di essere stati costretti a ricorrere a un prestito usurario.
Questo forte elemento psicologico ha indotto il Legislatore a introdurre un Fondo di solidarietà per le vittime dell’usura, con l’obiettivo di motivare una reazione difensiva che consenta allo Stato la giusta e doverosa repressione di quest’indegno fenomeno.

Il Diritto perfetto - Cappella degli Scrovegni

La Cappella degli Scrovegni – Dettaglio


Per il fermo il disprezzo di tale delitto, Dante mandò lo Scrovegni padre dritto all’inferno, mentre il figlio – quasi se la sentisse – decise di erigere sul terreno dell’arena romana una Cappella, dedicata alla Vergine Annunziata, al fine riscattare l’anima perduta del genitore e nel contempo lavare – in via preventiva – anche la sua.
Durante i lavori di edificazione vibranti proteste furono sollevate dai frati Agostiniani del vicino monastero degli Eremitani, i quali denunciarono la difformità delle opere realizzate rispetto al progetto approvato dal Vescovo. Le doglianze dei religiosi erano fondate, poiché si stava subdolamente edificando una Chiesa – e non una Cappella privata – con tanto di campanile annesso. Questo avrebbe provocato un danno irreparabile per la vicina comunità di frati i quali avrebbero subito la concorrenza di questo nuovo edificio di culto.
Non vi è documentazione certa sull’esito della controversia, ma pare che gli Agostiniani l’abbiano avuta vinta, visto che non c’è traccia del campanile e le dimensioni del fabbricato sono quelle consone a una Cappella privata.
Per le decorazioni Scrovegni convocò Giotto, il pittore più in voga del momento, il quale aveva – tra l’altro – già provveduto ad affrescare Assisi.
L’artista realizzò un capolavoro – completamente restaurato nel 2002 – incentrato sul tema della salvezza e riconciliazione dell’umanità: la nota di modernità introdotta da Giotto fu chiaramente spiegata dal Vasari, il quale osservò come, per la prima volta nella storia della pittura, furono rappresenti gli affetti e le attitudini dell’uomo, la felicità, l’ira, il pianto e anche i colori riproducevano la più vivida realtà.
Un particolare è degno di nota e si colloca nell’ambito dell’antica rivalità tra le città di Padova e Venezia: si racconta che nella realizzazione del Giudizio Universale, che occupa la parete in fondo e conclude il ciclo delle Storie raffiguranti la redenzione umana, Giotto s’ispirò (c’è chi dice che fu molto di più di un’ispirazione) al Giudizio Universale della Chiesa della Santa Maria Assunta al Torcello, uno splendido mosaico di trecento anni prima. Diversi dettagli, quali la posizione del Cristo e il sangue che scorre per divenire fiamma dell’inferno, possono far supporre che l’artista avesse dato un’occhiata al mosaico veneziano, anche se la vera innovazione dell’opera patavina sta nei dannati collocati alla base dell’affresco. Per la prima volta sono rappresenti con dovizia di dettagli, in tutta la loro cruda e truculenta realtà, quasi a voler significare al mondo dei vivi l’eterna e ineluttabile dannazione delle anime perdute.

Per approfondire:

Fiandaca Musco “Diritto Penale Parte speciale – I delitti contro il patrimonio” ed. Zanichelli 2009

Philippe Daverio “Guardar lontano Veder vicino” Ed. Rizzoli 2013; 

treccani.it/scrovegni O. Ronchi; 

giuseppebasile.org/restauri/lacappelladegliscrovegni

www.giottoagliscrovegni.it

Un Angelo troppo bello…

Si racconta che un giovanissimo Leonardo lavorasse come apprendista presso la Bottega di Andrea Verrocchio a Firenze, quando il Maestro, intento a realizzare il “Battesimo di Cristo”, gli chiese di dipingere un angelo nell’angolo in basso a sinistra della tela: Leonardo, che già padroneggiava egregiamente la nuova tecnica della pittura a olio, realizzò un'incantevole figura, in una posizione del tutto naturale, con una bionda capigliatura fluente e lo sguardo limpido rivolto al Signore.
Il Diritto Perfetto - Vergine delle Rocce - Leonardo da Vinci

Il Vasari racconta che alla vista di cotanta bravura e bellezza “…l’Andrea mai più volle toccare i colori, sdegnatosi che il fanciullo ne sapesse più di lui…”. Il talento di Leonardo era evidente e straordinario, ma nonostante questo gli esordi non furono facili e, quando pareva avere “campo libero” a Firenze – atteso che gli artisti più anziani e quotati si erano trasferiti a Roma – fu mandato da Lorenzo il Magnifico a Milano presso la Corte del suo alleato Ludovico Sforza.
Qui entrò in società con i fratelli De Predis titolari di una loro bottega: gli artisti ricevettero una commissione da parte della Confraternita di Santa Maria della Concezione, avente ad oggetto – tra l’altro – la realizzazione da parte di Leonardo di una Madonna con Angeli e Santi.
Pare che tra le parti fosse stato sottoscritto un contratto, con la precisa descrizione della prestazione dovuta, compreso il colore delle vesti, il modo in cui i personaggi dovevano presentarsi e lo stile dell’opera.
Leonardo, per essere adempiente ai propri obblighi avrebbe dovuto attenersi alle condizioni contrattuali, ma è noto che genio e regole raramente vanno d’accordo e per l’artista i contratti erano una mera formalità.
Discostandosi clamorosamente dalle istruzioni pattuite, Leonardo realizzò un’opera straordinariamente bella, ma del tutto diversa da quella richiesta: il dipinto rappresentava un episodio che neppure compare sulla Bibbia, secondo gli storici dell’arte la fonte ispiratrice sarebbe nei Vangeli apocrifi, ovvero quelli mai approvati dalla Chiesa. Nessuno prima di allora aveva osato pensare di raffigurare una scena tratta da tali testi per una pala d’altare.
Difficile non riscontrare un inesatto adempimento della prestazione resa dall’artista, la quale – secondo la committente – andava ben oltre la “libera interpretazione” dell’episodio da rappresentare.
Oltre a questo, attraeva l’attenzione la figura dell’Angelo Uriel: la creatura divina portatrice di luce era talmente bella da essere considerata quasi inquietante, il suo sguardo magnetico, leggermente enigmatico, in modo del tutto inusuale era rivolto fuori dal quadro verso lo spettatore e quel viso era così perfetto da sembrare quello di una ragazza. Era troppo.
Prevedibilmente, committenti non furono per niente soddisfatti dell’opera e rifiutarono il pagamento concordato, offrendo una somma molto inferiore a quanto richiesto a saldo dagli artisti.
La controversia proseguì per qualche tempo, senza esiti positivi, tanto è vero che de Predis minacciò di vendere l’opera a terzi pronti a pagare un prezzo ben più alto.
Ludovico il Moro cercò di mediare tra le posizioni dei due contendenti, aprendo una vera e propria negoziazione, con tanto di “Consulenza tecnica” dell’epoca: vennero, infatti, convocati diversi esperti cosicché fossero rappresentate tutte le parti in causa; i consulenti avevano anche il potere di conciliare la lite – esattamente come accade oggi – ma non si raggiunse alcun accordo, ipotesi frequente anche questa ai giorni nostri.

Il Diritto Perfetto - Vergine delle Rocce - Leonardo da Vinci dettaglio

Vergine delle Rocce di Leonardo da Vinci – Dettaglio


Fu così che la Pala venne rimossa per volere degli artisti e si aprì un lungo contenzioso, che porterà Leonardo a dipingere una seconda versione della Vergine delle Rocce – oggi conservata a Londra – leggermente diversa: l’Angelo, sempre bellissimo, diventa una presenza più discreta, il suo sguardo non è più rivolto allo spettatore e anche il gioco di luce è riservato ai soli personaggi, mentre altre correzioni riguardanti il piccolo San Giovanni ne fanno una rappresentazione più accettabile per la committente, che posizionerà l’opera sull’altare della cappella dov’era destinata.
Il pagamento andò a buon fine, anche se l’attesa durò venticinque anni, in quanto gli artisti incassarono l’ultima rata del prezzo nel 1508.
La prima versione del capolavoro, esposta al Musèe du Louvre, rimane certamente quella più suggestiva e seppur siano passati più di cinquecento anni da quando la mano di Leonardo diede vita a quella meravigliosa efebica divina creatura, nessuno mai è rimasto inerte di fronte al suo languido sguardo in tralice.

Per approfondire:

“Il Leonardo segreto” di C. D’Orazio ed. Pickwick

La potenza dell’immagine tra appalti e subappalti.

Tra gli appalti più celebri della storia possiamo ricordare quello conferito da Papa Giulio II a Raffaello Sanzio. Dopo aver creato un forte Stato temporale, il Pontefice commissionò ai più noti maestri del tempo la realizzazione di opere d’arte di assoluta bellezza e dallo straordinario potere evocativo, al fine di rappresentare ed esaltare la potenza della Chiesa, avviando così la più intensa campagna d’immagine e comunicazione del Rinascimento.
Il Diritto Perfetto - La Scuola di Atene

I presupposti per garantire il massimo successo del progetto c’erano tutti, atteso che egli poté convocare alla sua corte artisti del calibro di Michelangelo, Raffello e non ultimo Bramante, al quale commissionò la realizzazione della nuova chiesa di Roma, quella che poi diverrà la Basilica di San Pietro.
Tra tutti questi grandi maestri Raffaello è forse il più interessante, non solo perché appena venticinquenne era noto per il garbo, l’eleganza e la raffinata educazione, ma soprattutto per come il giovane appaltatore gestì con maestria e sottile intelligenza la complessa situazione conseguente all’incarico di affrescare gli appartamenti privati del Papa.
Giulio II, infatti, aveva categoricamente rifiutato di occupare quelli precedentemente abitati da Papa Alessandro VI Borgia, per via della condotta non proprio specchiatissima del suo predecessore.

Il Diritto Perfetto - Il Parnaso - Raffaello

Il Parnaso – Raffaello


Raffaello accettò di buon grado l’appalto, ma i lavori erano già in parte iniziati e alcune opere realizzate da altri noti maestri del tempo, tra i quali spiccava il nome di Lorenzo Lotto. Per questi ultimi l’incarico al giovane artista rappresentava un grave danno, sia in termini patrimoniali che d’immagine.
Di questo Raffaello era ben consapevole, così come aveva coscienza di non avere l’esperienza necessaria ad affrontare da solo un’opera titanica come quella assegnatagli; quindi, optò per una soluzione alquanto innovativa e moderna: egli non allontanò i vecchi maestri, ma strinse con loro una proficua collaborazione.

Il Diritto Perfetto - Disputa del Sacramento

Disputa del Sacramento – Raffaello


Di fatto si perfezionarono dei contratti di subappalto, che conferivano ai vecchi maestri specifici incarichi e precise mansioni, il tutto sempre sotto la completa supervisione di Raffaello.
Il risultato fu epocale: la sola stanza della Segnatura regalò al mondo capolavori inarrivabili come la “Scuola di Atene” o la “Virtù e la Legge”.

Lo spirito imprenditoriale del giovane urbinate non si fermò qui: egli si circondò di giovani allievi, in una sorta di apprendistato dell’epoca, i più dotati divennero veri e propri collaboratori del maestro, portando alla nascita della Bottega di Raffaello.


Il lavoro dell’artista divenne così il frutto di un continuo e costruttivo confronto, dal quale nacquero capolavori di eterna perfezione e irraggiungibile bellezza.

Per approfondire:

A. Forcellino “Raffaello una vita felice” ed. spec. Corriere della Sera; C. D’Orazio “Raffaello Segreto” ed. Pickwick 2017

Michelangelo e l’inganno che gli valse la fortuna…

L’inganno, inteso come l’arte di far apparire vero ciò che è falso, costituisce il cuore della truffa, crimine di antica memoria, spesso perpetrato da menti con capacità particolarmente raffinate.
Il Diritto Perfetto - La pietà di Michelangelo

Pur essendo un reato contro il patrimonio altrui, di frequente viene visto con minor disvalore sociale rispetto al furto, verosimilmente per l’ingegno e la fantasia con cui il reo ha insidiosamente manipolato la realtà per percepire l’ingiusto profitto.
L’inganno può essere perfezionato con un raggiro di parole o argomentazioni, oppure con un artificio, ovvero la materiale alterazione della realtà, come quella che sembra essere stata realizzata da un giovanissimo Michelangelo Buonarroti.

Il Diritto Perfetto - Cupido Dormiente - Michelangelo

Cupido Dormiente – Michelangelo


Si racconta che tra il 1495 e il 1496 a Firenze l’artista fu contatto da due cugini di Lorenzo de Medici appena rientrati dall’esilio: giunti presso la bottega dell’artista, la loro attenzione fu attratta da un “Cupido dormiente” rappresentato nell’età di circa sei anni, a grandezza naturale; chiesero allo scultore se fosse possibile trattarlo per farlo sembrare antico, poiché avevano un compratore al quale potevano spacciarlo per autentico; per il lavoro gli avrebbero versato ben trenta ducati… un buon vantaggio per tutti.
Per alcune fonti, Michelangelo accettò la proposta; lavorò e affumicò il Cupido sino a che non risultasse antico di almeno un paio di secoli; lo consegnò ai due committenti, incassando il pagamento.
Qualche tempo dopo, uno dei due cugini de’ Medici ritornò presso la bottega dello scultore insieme a un gentiluomo giunto da Roma, tal Jacopo Galli: quest’ultimo chiese a Michelangelo di disegnare una mano; poco dopo lo schizzo fu pronto e il gentiluomo esclamò che non aveva dubbi su chi fosse allora lo scultore del falso Cupido antico venduto per duecento scudi al potente Cardinale Raffaele Riario, di cui Galli era il segretario. L’opera era senz’altro frutto dello straordinario talento del Buonarroti.
Jacopo Galli riferì che il Cardinale era piuttosto indispettito per la figuraccia conseguente all’ampia diffusione della notizia della truffa in suo danno, ma al contempo desiderava conoscere l’autore dello splendido Cupido e per tali ragioni invitava lo scultore a Roma.
Quando si dice la svolta della vita: Michelangelo accettò senza indugio e quando si trovò al cospetto del Cardinale, gli porse le sue scuse. Questi, da avveduto mecenate qual era, non sporse denuncia, ma volle che l’artista rimanesse presso la residenza del Galli, commissionandogli la scultura del Bacco, oggi esposta al Museo del Bargello a Firenze.
Sembra inizi così, con un condotta illecita rimasta impunita, l’ascesa nella Città Eterna dello scultore che – come nessun altro- ha saputo estrarre dal marmo più candido la fisicità intensa di un corpo umano o la sublime delicatezza di un volto di fanciulla.

Il Diritto Perfetto - La Pietà di Michelangelo - Dettaglio

La Pietà di Michelangelo – Dettaglio


Michelangelo non aveva ancora venticinque anni quando ricevette dal cardinale francese Jean Bilhères de Lagraulas, del titolo di Santa Sabina, ambasciatore del re di Francia, l’incarico di scolpire una Vergine con un Cristo morto da collocare presso la Cappella di Santa Petronilla, nella vecchia Basilica di San Pietro.
Jacopo Galli, che conosceva bene lo straordinario talento di Michelangelo ed era stato l’intermediario tra i due, prestò quasi una garanzia – anche se il termine è giuridicamente improprio – a favore dell’artista, scrivendo una lettera – oggi conservata presso l’Archivio di Stato – nella quale assicurava che la scultura sarebbe stata la più bella opera in marmo che Roma avesse mai avuto.
Michelangelo accettò la proposta e si recò a Carrara, dove si trattenne per nove mesi fintanto che trovò un blocco di marmo soddisfacente per lucentezza e perfezione.
Al suo rientro a Roma il rapporto negoziale venne formalizzato in un atto scritto datato 27 agosto 1498: si trattava di un contratto d’opera nel quale si specificava che il Cristo doveva essere a grandezza naturale. La peculiarità del contratto d’opera rispetto all’appalto, al quale spesso viene assimilato, va ravvisata nella predominanza del lavoro del persona rispetto agli altri mezzi a disposizione dell’obbligato (attrezzature, personale, immobilizzazioni…).
Nel caso di Michelangelo non è dubitabile l’assoluta dominanza della mano dell’artista in rapporto alla prestazione dovuta e ai mezzi a disposizione: si pensi che – secondo talune fonti- la delicata fase della levigatura del marmo, eseguita con pietra pomice, aveva portato conseguenze irreversibili alle mani dello scultore.
Il termine di consegna era fissato entro un anno dalla data della sottoscrizione del contratto, appena tre mesi in più del tempo occorso per procurarsi il marmo.

Il Diritto Perfetto - La Pietà di Michelangelo - Dettaglio

La Pietà di Michelangelo – Dettaglio


Dalla pietra Michelangelo estrasse un capolavoro assoluto: lascia attoniti la bellezza del giovane volto di Lei, quasi non potesse essere la madre figlio abbandonato sulle sue gambe, coperte da una veste dal panneggio ampio e morbido. Anche il volto del figlio ha lasciato andare la sofferenza, tutto trasmette una rassegnata serenità, quasi vi fosse – in fondo – la consapevolezza che con l’amore è stata vinta la crudezza della morte.
Roma rimase incantata dalla Pietà, come se fosse di fronte a qualcosa di prodigioso, mai visto prima per la sua lucentezza, lo splendore e la grazia, vera bellezza dell’anima.
La promessa di Jacopo Galli fu ampiamente mantenuta e mezzo secolo dopo Vasari colse più di ogni altro la meraviglia compiuta da Michelangelo, affermando «Non pensi mai, scultore né artefice raro, potere aggiungere di disegno né di grazia, né con fatica poter mai di finezza, pulitezza e di straforare il marmo tanto con arte, quanto Michelangelo vi fece, perché si scorge in quella tutto il valore et il potere dell’arte».

Per approfondire:

Fiandaca Musco “Diritto Penale Parte speciale” Vol. II, tomo secondo ed. Zanichelli pag. 170 e ss.

Costantino D’Orazio “Io sono fuoco” ed. Sperling & Kupfer 2018

Philippe Daverio “Il gioco della Pittura” ed. Rizzoli 2015

Vasari “Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori (1568)”, Grandi Tascabili Economici Newton, 2003)

L’immortale eterea bellezza.

"Vi è un lampo di vita fuggevole da acchiapparsi al volo ed egli l’esprime con un frego, in uno svolazzo, in un fiocco; lo suggerisce con un tocco rozzo o livido sulle labbra, con un cerchio paonazzo intorno a due occhi febbrili, lo fa tremare in un ricciolo di capelli ribelli su una nuca di donna. E lo fa bene". Con queste poche parole pubblicate ne “La Voce”, del marzo 1909, il grande artista toscano Ardengo Soffici descriveva l’arte di Giovanni Boldini.
Il diritto perfetto - Giovanni Boldini

A Parigi, nei primi del ‘900 pulsa il cuore della Belle Epoque, Giovanni Boldini diventa l’icona di quel mondo che esalta una sensuale femminilità, avvolta in sinuosi chiffon, sete trasparenti e audaci scollature; nessuno come lui sa trasportare sulla tela le immagini e le sensazioni che imboccano già la via della modernità.
Boldini fu il più celebre ritrattista dell’epoca, la sua tecnica pittorica fatta di “sciabolate di colore” era sempre alla ricerca del particolare perfetto, della bellezza sublime, sempre nel vorticare di virtuosismo unico.
Ritrasse nobildonne di mezza Europa, ma ebbe una relazione speciale con Marthe de Florian, raffinata, elegante, dalla ricca vita mondana, diventò la musa prediletta di Boldini.
Marthe viveva in un appartamento nell’ottavo arrondissement di Parigi, sulla rive droite, quartiere della borghesia, dove hanno sede l’Eliseo e il Ministero dell’Interno: ancora oggi non è chiaro a che titolo occupasse l’abitazione, anche se più fonti propendono per un rapporto di locazione, ma è certo ch’ella visse in quella casa sino alla sua morte avvenuta nel 1939. Dopo di lei, vi risiedette il figlio Henri Beaugiron, il quale a sua volta ebbe una figlia, Solange.
Scoppiò la seconda guerra mondiale, le truppe naziste invasero Parigi, il figlio di Madame de Florian con la bambina fu costretto a una fuga repentina: si chiuse alle spalle la porta di quell’appartamento che vide i fasti della Belle Epoque e trovò rifugio nel sud della Francia, senza mai più far ritorno.
Nel 2010 Solange Beaugiron moriva all’età di 91 anni: gli eredi all’atto di riordinare gli effetti personali della nonna, trovarono un contratto in virtù del quale la signora Solange si era impegnata a pagare l’affitto di un appartamento a Parigi, della cui esistenza nessuno di loro aveva contezza.
Sarebbe interessante conoscere gli aspetti legali della vicenda locatizia, in quanto generalmente alla morte del conduttore la locazione viene a cessare, trattandosi di un contratto tipicamente caratterizzato dall’intuitu personae, ovvero quel rapporto negoziale nel quale la considerazione della identità del contraente, o delle sue qualità personali, sono elementi determinanti del consenso di una delle parti.

Il Diritto Perfetto - La Femme en Rouge di Giovanni Boldini

La Femme en Rouge – Giovanni Boldini


È verosimile pensare che il figlio di Madame de Florian, dopo la morte della madre, abbia sottoscritto un nuovo contratto, oppure con il consenso del locatore sia subentrato in quello esistente.
È ipotizzabile, altresì, che il rapporto locatizio – sempre adempiuto dal conduttore con il pagamento dei canoni – si sia rinnovato negli anni e, in seguito alla morte di Henri Beaugiron, la figlia Solange sia subentrata al padre, in forza di una specifica clausola contrattuale, oppure per aver a sua volta sottoscritto un nuovo contratto.
Quello che è certo è che per quasi 70 anni gli eredi di Madame de Florian pagarono l’affitto di quell’appartamento parigino.
I nipoti di Solange – sorpresi dall’inusuale scoperta – contattarono l’esecutore testamentario nominato dalla de cuius: espletate le pratiche di successione, quest’ultimo, insieme ai parenti della defunta e alla polizia giudiziaria, si recò in quella che fu la casa di Madame de Florian.

Il Diritto Perfetto - l'Appartamento di Madame de Florian

L’appartamento di Madame de Florian


La porta venne forzata, i presenti entrarono, rimanendo attoniti e senza parole. Era come se il tempo si fosse fermato a settant’anni prima: tutto era rimasto immobile, persino i belletti e i profumi sparsi alla rinfusa sulla toilette da signora, con un paio di spazzole d’argento. C’erano riviste, un vecchio forno a legna, un pupazzo di Micky Mouse… quando qualcosa di assolutamente meraviglioso si palesò agli occhi dei presenti.
Il ritratto di una bellissima giovane donna, di profilo, i capelli morbidamente raccolti lasciavano cadere alcune ciocche ondulate, al collo delle perle… e quell’abito da sogno in seta rosa, con maniche ricche, che lasciava le scoperte spalle.
Era Marthe de Florian a 24 anni: Giovanni Boldini l’aveva ritratta come solo lui sapeva fare, fissando lo charme di una donna (e quello di un’epoca) sulla tela, regalandole l’immortalità di quel momento di eterea assoluta bellezza.
Il mistero per cui l’appartamento rimase chiuso per settant’anni non è stato chiarito, mentre il dipinto ha sbaragliato tutte le quotazioni dei precedenti Boldini, superando i tre milioni di euro; anche l’abito in seta rosa è stato ritrovato nell’armadio, insieme a diverse lettere ordinatamente raccolte da un nastro: erano quelle che lei e il Maestro Boldini si erano scambiati nel corso degli anni… la storia di un amore, la storia di una Musa. Per sempre.

Per approfondire: